Mentre proviamo a comporre il mosaico della "buona politica al servizio della pace" – quella scelta come tema per la Giornata della Pace del 1 gennaio 2019, quella dei nostri padri costituenti – assistiamo al disfacimento dell'Italia solidale.
La legge sulla sicurezza, approvata in larga maggioranza dalla Camera lo scorso 28 novembre, sembra abbattersi come una mannaia sulla Dichiarazione Universale dei diritti umani, al suo settantesimo anniversario – quella che sancisce il diritto alla salute, all'asilo politico, alla libertà di movimento, alla dignità e a molto altro ancora. Diritti per cui si è combattuto, che sono stati sanciti dall'Onu e hanno costituito una sorta di orizzonte ideale dell'Unione europea, e che pertanto andrebbero rispettati, invece di essere circondati da fili spinati, muri, minacce di rimpatrio, in un vortice che non risolve i problemi ma, al contrario, aggiunge dolore al dolore.
Ci siamo interrogati sul perché di tanta chiusura, che col nuovo decreto sicurezza sembra diventare addirittura accanimento. Sul perché ci sentiamo più sicuri chiudendo le nostre certezze dietro porte blindate, rispedendo al di là – del confine, del mare – ciò che continuiamo a catalogare come altro da noi.
Il motto demagogico "prima gli italiani" ci sembra fuorviante e falso. Un balzo indietro della storia e del diritto, una regressione rispetto alla costruzione di una "casa comune", sia a livello internazionale che europeo. La sovranità esiste – ed è sacrosanta – ma è altrettanto vero che "(L'Italia) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo" (art. 11 Cost.).
Nella storia della nostra Repubblica siamo andati a votare per un referendum di indirizzo una sola volta, nel 1989, sul seguente quesito: "Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?". Vinse il sì, con l'88,03% dei voti e con un'affluenza dell'80,88% degli aventi diritto.
Oggi l'Italia, e purtroppo buona parte dell'Europa, con una virata di indirizzo rivede tutta se stessa suscitando preoccupazione, se non indignazione, anche tra diversi costituzionalisti. Valerio Onida ha manifestato dissenso di fronte ad atteggiamenti di "chiusura ed egoismo nazionalistici, di rifiuto dell'altro, dello straniero", se non "di vero e proprio razzismo" (Corriere della sera, 28 luglio 2018), ricordandoci che siamo di fronte "a un fenomeno di massa, epocale: la pressione di milioni di esseri umani che… aspirano a venire nelle nostre terre, più ospitali e ben più ricche di quelle di origine". Siamo quindi di fronte a un fenomeno importante che come tale va governato, non cavalcato per propri tornaconti elettorali o su basi semplicistiche e irrazionali. Governato con quella buona politica a cui ci invita papa Francesco e a cui fa eco Alex Zanotelli in un suo articolo pubblicato da Avvenire lo scorso 29 novembre: "ogni azione è politica. Dio non è neutrale, Dio è profondamente schierato dalla parte degli oppressi, dei poveri, perché Dio non può tollerare sistemi che opprimono e schiavizzano". Ma gli oppressi, in questa Italia sempre più tinta di nero, tendiamo a rimandarli lontano, da dove sono venuti. Sempre più impauriti da ciò che rappresentano e da cui sentiamo di doverci differenziare, come se la precarietà delle loro vite non somigliasse sempre più alla precarietà di molte delle nostre, depauperate da un modello economico forte solo con i forti e da un impoverimento culturale che punta all'ignoranza e alla grettezza a dispetto della complessità e raffinatezza di analisi e soluzioni.
Ci ritroviamo in pieno, quindi, nel grido di Gustavo Zagrebelky, che invoca la disobbedienza civile: "Basta con il silenzio, è venuto il tempo della resistenza civile" (Repubblica, 23 novembre 2018).