Sviluppo sostenibile: le sfide per un mondo di pace. Dagli Obiettivi del Millennio alla produzione di bombe per lo Yemen in Sardegna.
Quali risposte vengono offerte dalla comunità globale alle sfide di una umanità attraversata da tensioni che sembrano sempre meno controllabili?
L'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni unite nel settembre del 2015, rappresenta la prospettiva di riferimento cui tutti i paesi sono chiamati a confrontarsi. Essa si concretizza in un preambolo e una introduzione, dove sono ricordati i principi "qualitativi"; e in 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (OSS o SDGs), che affrontano i diversi temi, vitali per l'umanità e per il pianeta.
Tra gli elementi che caratterizzano il mondo contemporaneo, c'è senz'altro quello relativo ai conflitti che attraversano il pianeta. Secondo il Sipri, la situazione attuale è segnata da un peggioramento di tutti gli indicatori, con un aumento dei livelli di spesa militare, di commercio di armi, del numero di confitti violenti. L'obiettivo 16 dell'Agenda 2030 è dedicato alla promozione di società pacifiche e inclusive, accesso universale alla giustizia, e istituzioni responsabili ed efficaci. Tale obiettivo offre, però, una lettura per certi aspetti limitativa dei problemi relativi ai conflitti violenti, incluse le implicazioni relative al commercio delle armi. Per come viene espresso, si tratta in particolare di "… ridurre ovunque e in maniera significativa tutte le forme di violenza e il tasso di mortalità ad esse correlato", e di "…ridurre in maniera significativa il finanziamento illecito e il traffico di armi…".
Flussi illegali
Non è difficile cogliere un certo livello di "corto circuito" tra questi due targets: è chiaro, infatti, che la mortalità collegata ai conflitti non dipende esclusivamente dai flussi "illegali" di armi: a partire dal fatto che quasi tutte le armi generalmente iniziano la vita in modo "legale", i flussi "illegali" non rappresentano che una frazione degli armamenti usati nei conflitti. Sul tema, un orientamento ben diverso viene sviluppato dal Global Peace Index (GPI), che considera il grado di coinvolgimento di ogni paese in situazioni di conflitto; il grado di sicurezza dei cittadini e dei residenti; il grado di militarizzazione, inclusi i livelli di import/export legale di armi. Ci si trova qui in presenza di una macroscopica evidenza: i paesi più ricchi sono anche quelli che maggiormente contribuiscono alla produzione e al commercio di armi. Tutto questo mette in evidenza un elemento di forte debolezza del framework proposto dagli SDGs: ogni paese può, infatti, reclamare uno stato di avanzamento nella propria condizione di sviluppo sostenibile anche a dispetto di un elevato grado di militarizzazione della propria economia, in una sorta di trasferimento dell'onere della prova dai paesi dove i conflitti hanno in qualche modo radice a quelli che dei confitti sono vittime. Tale riflessione non ha evidentemente l'obiettivo di escluderne le radici "locali", quanto di riconoscere l'importanza crescente dell'elemento di "internazionalizzazione" nella maggior parte dei conflitti che scuotono il mondo attuale,, e come questo elemento risulti sostanzialmente ignorato dall'Agenda 2030.
Questione Sardegna
Le questioni sopra menzionate trovano una plastica illustrazione con il caso del Sulcis Iglesiente, regione della Sardegna, profondamente caratterizzata dalla realtà delle miniere che hanno segnato la sua storia industriale. La crisi occupazionale che ha contrassegnato la lunga fase di dismissione del settore minerario ha lasciato il territorio in condizioni drammatiche. Una parte della struttura industriale dell'indotto minerario trova, però, riutilizzo in altri settori, come nel caso del sito industriale di Domusnovas, tradizionalmente luogo di produzione di esplosivi a destinazione civile e, a partire dal 2001 destinata alla produzione di armamenti (in particolare bombe da aereo).
In un contesto di riflessione sullo sviluppo sostenibile appare estremamente interessante il modo in cui tale mandato globale si riflette nel comportamento degli operatori economici: in che termini è "sostenibile" un'azienda che produce armi? Nel caso della Rheinmetall Group (la holding di cui fa parte la RWM Italia, proprietaria dello stabilimento di Domusnovas) tale elemento emerge dal Corporate Responsibility Report 2017 dove appare un capitolo, particolarmente significativo e per certi aspetti paradossale, sull'impegno della Rheinmetall nell'accoglienza di profughi provenienti da zone di guerra. La presentazione di tutta l'attività di produzione di armi, a partire dal titolo/slogan "force protection", è incentrata sul concetto di protezione, che ritorna in innumerevoli declinazioni suggerendo l'immagine di armi "buone" perché pensate per "difendersi".
Proprio a Domusnovas, si sviluppa una crescente e documentata paroduzione di bombe destinate all'Arabia Saudita, che vengono usate in uno dei conflitti più tragici e dimenticati del nostro tempo, quello in Yemen, dove ai drammi della guerra si aggiungono quelli della carestia e dell'epidemia di colera. Nel marzo del 2015, l'Arabia Saudita dà il via a un intervento militare, unilaterale e senza alcuna copertura da parte delle Nazioni unite, alla guida di una coalizione composta da alcuni altri paesi, soprattutto del Golfo e di fatto sostenuta da USA, Francia e Regno Unito, con l'obiettivo di soffocare la ribellione degli Houthi (che molte fonti indicano come a loro volta sostenuti dall'Iran e da Hezbollah), ma con fasi alterne che portano ormai importanti aree del paese sotto il controllo di Da'esh e di Al Qaeda. Si tratta di una guerra contraddistinta da numerosissime violazioni dei diritti umani e delle leggi di guerra equamente divise tra le diverse parti in causa, tra cui alcuni bombardamenti effettuati dall'Arabia Saudita dove è stato documentato l'uso di bombe costruite in Italia.
Quale legalità?
La produzione delle bombe di Domusnovas avviene attualmente nel rispetto della legalità formale, ma è necessario invece porre la questione relativa alla sua legittimità etica e sostanziale, soprattutto a partire dai primi articoli della legge italiana che regola il commercio delle armi, la 185/1990, che proibisce esplicitamente l'esportazione e transito di armi "verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni unite, dell'Ue o del Consiglio d'Europa". Essa impone, inoltre, al governo di predisporre "misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa". Si tratta di principi che nel tempo attuale potremmo definire come perfettamente congruenti con le priorità espresse dall'Agenda 2030.
Tali elementi di forte problematicità sono stati però ignorati dalla politica che, sia nella passata che nell'attuale legislatura, non è riuscita a mettere in dubbio le autorizzazioni all'esportazione di bombe sarde, concesse in contraddizione con il dettato della legge 185, e con la posizione ripetutamente affermata dal Parlamento europeo. Il caso esposto pone in generale un rischio avvertibile: quello che l'Agenda 2030 e degli SDGs finiscano per non riuscire a misurare (attraverso il sistema di obiettivi e targets) le forti tensioni e contraddizioni che hanno sicuramente una rilevanza in termini di sostenibilità, di diritti, di principi. L'elemento del commercio delle armi non può rimanere estraneo a questa discussione, ed è necessario alzare nuovamente l'attenzione sul tema attraverso la valorizzazione della relazione al Parlamento prevista dalla legge 185, inserendone la considerazione nel piano nazionale per lo sviluppo sostenibile. È un passo importante che deve essere fatto: siamo abituati a pensare all'industria militare come a una "eccellenza" italiana, senza dare troppo peso alle implicazioni, incluse quelle relative all'articolo 11 della Costituzione, pure richiamato dalla Legge 185 come elemento che deve condizionare la posizione italiana su questo tema.
Sullo sfondo, si trova naturalmente la necessità di proporre un'alternativa positiva, un modello di sviluppo che permetta particolare attenzione su quei territori e quelle persone che si trovano di fronte a ciò che appare come un vero e proprio ricatto tra le ragioni dell'etica e del bene comune, e le ragioni del lavoro.