Il peso delle armi nei conflitti dimenticati. Il nuovo rapporto di Caritas Italiana delinea e analizza le connessioni tra conflitti, morti per stragi, violenze domestiche e armi, pensanti o leggere, vietate o nucleari.

 

Da circa 20 anni Caritas Italiana ha avviato un percorso di riflessione e azione sui "conflitti dimenticati" con l'intenzione di analizzare le cause e le interconnessioni dei fenomeni che producono violenza su larga scala e immani sofferenze per la popolazione civile.

E con lo scopo di unire il servizio concreto alle vittime, cui portare aiuti umanitari, a un lavoro di studio e ricerca finalizzato a un duplice obiettivo: uno, prioritariamente educativo, al fine di alzare il livello di consapevolezza sui fenomeni, sui collegamenti anche con i nostri territori e le nostre responsabilità; un secondo di carattere politico e di tutela dei diritti, per "incidere" anche sulla comunità internazionale con la forza dell'esperienza e della competenza, della testimonianza diretta, ma anche delle ricerche con dati di prima mano, raccolti sul campo e degli altri studi in materia. 

Sin dalla prima edizione dell'indagine, si è impostato il lavoro su tre livelli: una prima parte incentrata sull'analisi geopolitica dei fenomeni, le conseguenze sui civili, l'impatto umanitario e altri aspetti collegati; una seconda parte sulla ripresa mediatica e sul livello di conoscenza della popolazione italiana di tali fenomeni globali; una terza parte propositiva, normativa, etico-valoriale, incentrata sulla visione e sulla prospettiva che, come Caritas Italiana, si è ritenuto di proporre, in forza della propria esperienza e del proprio mandato.

Nelle cinque edizioni sin qui realizzate, la ricerca ha esaminato vari aspetti: la prima ("I conflitti dimenticati", Feltrinelli, 2003, ma con i dati raccolti sul campo dall'inizio del 1999) si è concentrata sulle tre domande fondamentali (definizione, analisi e mappatura dei conflitti contemporanei, loro ripresa mediatica e impatto sulla popolazione, proposte e prospettive); la seconda ("Guerre alla finestra", Il Mulino, 2005) incentrata soprattutto sul rapporto tra povertà e guerre, sull'impatto sociale dei conflitti dimenticati e sui possibili processi di riconciliazione; la terza ("Nell'occhio del ciclone", Il Mulino, 2008) sui conflitti ambientali, sul rapporto tra guerre e cambiamenti climatici; la quarta ("Mercati di guerra", Il Mulino, 2012) dopo l'impatto delle crisi finanziarie in particolare sui prezzi del cibo che avevano causato fame e violenze in tanti paesi del mondo, sulle speculazioni e la mancanza di una governance globale in tal senso; infine, la quinta ("Cibo di guerra", Il Mulino, 2015) in occasione dell'Expo di Milano e nel pieno della guerra in Siria, sull'utilizzo del cibo come arma di guerra per ridurre alla fame intere popolazioni ritenute "nemiche".

Guerre e armi 

Siamo così giunti alla sesta ricerca sui conflitti dimenticati, pubblicata il 10 dicembre, in occasione del settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il tema principale è incentrato sul rapporto tra guerre e armi, intese non solo come uno strumento con cui si combatte oggi nel mondo, ma anche come fattore causale delle guerre stesse, come uno degli elementi che contribuisce a spiegare l'insorgere, il perdurare e le dinamiche di sviluppo dei conflitti organizzati e violenti che caratterizzano lo scenario geopolitico contemporaneo ledendo i diritti umani fondamentali di larghe porzioni dell'umanità, ma anche influendo sul linguaggio, la ripresa mediatica e la percezione della gente. Questa nuova ricerca si caratterizza per numerose novità di contenuti e di metodo. Nell'edizione di quest'anno il tema delle armi diviene un aspetto centrale, in grado di leggere in modo trasversale le varie dimensioni dei conflitti armati. Anche grazie alla relativa facilità di impadronirsi di veri e propri arsenali, soprattutto di armi leggere, le guerre sono ormai alla portata non solo delle forze armate ufficiali, ma anche e soprattutto delle bande armate e dei piccoli gruppi militarizzati, protagonisti dei moderni conflitti. E, infatti, il rapporto non parla solamente di armi da fuoco: la nuova frontiera della guerra post-moderna vede l'ingresso in scena di armi letali non convenzionali, spesso poco costose, come le bombe fai-da-te, le armi chimiche, i barili-bomba, le cyber guerre combattute attraverso l'utilizzo dell'informatica, ecc.. 

Nel corso dell'ultimo decennio la sicurezza globale è andata senza dubbio deteriorandosi significativamente. Come si legge nel rapporto, nel corso del 2017 i conflitti nel mondo sono stati 378. Di questi, sono 20 le guerre a elevata intensità. Mentre appaiono in diminuzione i conflitti non violenti, di tipo politico-territoriale, sono aumentate invece le "crisi violente": dalle 148 situazioni del 2011 si è infatti passati alle 186 situazioni del 2017 (+25,7%). Il numero di profughi costretti a mettersi in fuga a causa di tali conflitti è in costante crescita, sfiorando ormai la soglia dei 70 milioni di persone. Nel 2017, mediamente ogni giorno oltre 44mila esseri umani hanno dovuto abbandonare la propria casa. Con un incremento del 40% rispetto all'anno precedente.

Ma l'aumento dell'insicurezza globale non dipende solamente dalla guerra tradizionale. In senso più complessivo, il numero di morti violente per anno nel mondo continua a salire: dagli oltre 500.000 casi registrati nel 2016 fino a più di 800.000 ipotizzabili in uno scenario fino al 2030. Alla base di tale incremento vi è senza dubbio la forte diffusione delle armi leggere, le grandi protagoniste delle uccisioni e dei ferimenti. Economiche, facili da usare, sono anche le armi usate per costringere, minacciare e spaventare, per permettere abusi ed espropri, e per armare i bambini arruolati nella guerra. Non parliamo quindi di armamenti pesanti e tecnologicamente avanzati, ma di strumenti di guerra alla portata di tutti, prodotti da tanti paesi occidentali, tra cui anche l'Italia.

Armi domestiche 

In merito a quest'ultimo aspetto, il rapporto dedica grande attenzione al mercato domestico delle armi e alla evidente contraddizione, perlomeno culturale e di valore, tra un Paese che, da un lato ripudia formalmente la guerra, ma che allo stesso tempo non esclude la possibilità di vendere armi e armamenti di vario tipo a nazioni coinvolte da guerre e conflitti armati. 

L'Italia è, infatti, tra i primi 10 paesi esportatori di armi nel mondo. Nel solo anno 2017 le autorizzazioni all'esportazione di armi italiane (rilasciate dal nostro ministero degli Esteri), hanno superato i 10 miliardi di euro. Di queste, il 57% fanno riferimento a paesi non appartenenti all'Unione europea o addirittura alla Nato, tra cui l'Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, tutti stati impegnati nella sanguinosa guerra dello Yemen.

Le armi incidono sempre più nelle dinamiche legate alla conflittualità a livello internazionale, ma anche in molte altre situazioni. Ci sono, infatti, diverse dimensioni in cui le armi producono un impatto sulla vita delle persone, nelle crisi umanitarie, e possono determinarne il corso: 

• Innanzitutto ci sono le armi leggere, le grandi protagoniste delle uccisioni e dei ferimenti. Economiche, facili da usare, sono anche le armi usate per costringere, minacciare e spaventare, per permettere abusi ed espropri, e per armare i bambini arruolati nella guerra. Un mercato in costante crescita. 

• Ci sono le armi pesanti, oggi utilizzate in modo sempre più indiscriminato per colpire la popolazione civile, in un clima di parziale o totale violazione delle norme umanitarie, soprattutto da parte degli Stati, magari sotto la sloganistica e le propaganda della lotta al terrorismo internazionale. 

• Ci sono le armi proibite dalle convenzioni internazionali, che stanno vivendo una nuova primavera: bombe a grappolo, mine anti-persona, gas letali, ecc. Con la comunità internazionale sempre più indifferente alla violazione di regole di civiltà costruite faticosamente nei decenni. E nella sostanziale miopia di quanto questo potrà comportare nel medio-lungo periodo non solo per le popolazioni civili locali, ma in una scala ben più ampia.

• Perfino l'uso di armi nucleari è rientrato tra le opzioni che alcune forze combattenti contemplano nei loro piani, anche se il tabù non è stato ancora apertamente violato. Anche in questo caso le minacce di rilancio e di ampliamento della ricerca, della produzione e della commercializzazione di tali armi prospetta spettri inquietanti nel futuro della geopolitica internazionale.

Le armi uccidono, feriscono, mutilano, distruggono beni indispensabili. Le bombe oggi attaccano ospedali, scuole, abitazioni, luoghi di lavoro, acquedotti, centrali elettriche, infrastrutture, non solo provocando la morte di migliaia di persone, ma anche privando i sopravvissuti della possibilità di continuare la loro vita e costringendoli alla fuga. Infatti, le armi sono quelle che spingono milioni di persone a lasciare le loro case e tentare un esodo disperato. Armi spesso fornite dalle stesse potenze che poi minacciano di coinvolgere i propri eserciti per contenere l'esodo di profughi generato dalle conseguenze delle proprie decisioni e interessi. 

Le stesse armi colpiscono i convogli umanitari, i soccorritori, il personale medico, le ambulanze. In uno sforzo immane per impedire che la gente venga soccorsa, nutrita e dissetata, spazzando via ogni forma di vita dal territorio. 

Per mano violenta 

Armi che sono nelle mani di organizzazioni criminali, gang o individui violenti, che impongono il terrore e abusano della popolazione, saccheggiandone le risorse, ferendo, stuprando e uccidendo. E impossessandosi di quanto reputano di maggior valore. Sono oltre 500.000 l'anno i morti per arma da fuoco nel mondo. Di questi, 100.000 sono morti in guerra nel 2016 (l'ultimo anno di cui possediamo dati); 34.000 sono state le vittime del terrorismo; 385.000 sono vittime di omicidi intenzionali, ad opera del crimine o di altri individui. 

Le morti causate dalle guerre si concentrano soprattutto in alcune aree del mondo: il Medio Oriente, il Nord Africa, l'Asia centrale e del sud. Al contrario, la violenza omicida è diffusa nelle aree urbane medio-grandi dell'America Latina e dei Caraibi, e di parti dell'Africa centrale e meridionale, ma anche nel ricco occidente a partire dagli Usa. Dunque, la criminalità ha un impatto superiore alle guerre, in termini di morti.

Tuttavia, occorre ricordare che i conflitti provocano un quantitativo di feriti e mutilati maggiore, e lo sfollamento di decine di milioni di persone, che finiscono in altre aree del loro Paese e in altre Nazioni, come rifugiati, cercando protezione internazionale. 

In ogni caso, la violenza interpersonale e quella politica sono sempre più interrelate, soprattutto dove le istituzioni sono deboli e le norme sociali sono divenute tolleranti nei confronti della violenza. Ma è chiaro sin da ora che, per contrastarne gli effetti ultimi, occorre porre rimedio a una sostanziale sregolatezza del mercato delle armi, all'ipocrisia delle grandi potenze che di fatto gestiscono il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, e sono anche i più grandi fornitori di armi in tutto il mondo, noncuranti degli effetti ultimi di queste politiche. 

E giungiamo in questo senso al centro dell'intera questione, che si gioca, infatti, sulla dimensione culturale e sulla difficoltà dei nostri concittadini (ed elettori) a informarsi in modo consapevole e obiettivo sui temi di politica internazionale. Lo studio realizzato in riferimento a quattro grandi quotidiani nazionali, evidenzia la difficoltà dei grandi organi di informazione nel dare spazio e voce ai conflitti dimenticati, oltre che la tendenza a privilegiare eventi e contenuti di taglio nazionale o locale, anche se di scarsa importanza e rilevanza sociale. In questo tipo di panorama giornalistico, una solitaria eccezione è, invece, costituita dalle pagine di Avvenire e dalla stampa cattolica più in generale, oltre ad altre numerose realtà "di base" che valorizzano la diffusa testimonianza della chiesa nei calvari del mondo, e che riescono, quindi, a dare voce anche a chi veramente non ne ha. A coloro che, oltre a essere colpiti dalla povertà, lo sono anche dalla guerra e dalla violenza. È la nostra funzione pedagogica, affidataci da san Paolo VI, oggi quanto mai necessaria in un contesto globale sempre più caratterizzato da sloganistiche superficiali e, spesso, violente.