Sotto il Monte ha ospitato, il 31 dicembre, la Marcia per la Pace e, nei giorni precedenti, il convegno promosso da Pax Christi.

 

Sotto il Monte è un luogo dello spirito. Di spirito profetico dotato, direbbe padre Dante. Come Assisi, Bozzolo, Barbiana, Alessano.

Luogo della memoria profetica che vede tra i suoi protagonisti alcuni padri della Chiesa contemporanea come Giovanni XXIII, Papa del Concilio e della Pacem in terris; David Maria Turoldo, vissuto qui per molti anni a custodire attivamente la memoria di papa Giovanni; Tonino Bello, amico di padre Davide (lo aveva invitato più volte in Puglia), che è venuto a trovarlo a Sotto il Monte nel 1985, l’anno della sua prima esperienza come presidente di Pax Christi. Tra i due c’era un’intima solidarietà. Don Tonino ricordava padre Davide come leone incatenato, ardente d’amore per una Chiesa spesso infedele al Vangelo di Cristo e padre Davide consolava don Tonino per numerosi attacchi ricevuti. 

A unire in profondità papa Giovanni, padre Davide, don Tonino (e papa Francesco) è il Concilio, ma ancora di più la passione per il Vangelo della pace che oggi papa Francesco annunzia con tenacia richiamandosi spesso alla Pacem in terris. L’ha fatto nel 2013; l’ha ripetuto il 10 novembre 2017 a proposito dell’incontro vaticano sul disarmo nucleare, quando ha citato il paragrafo 61 sull’arresto, la riduzione e l’eliminazione degli armamenti grazie alla dissoluzione della psicosi bellica; l’ha fatto il 1 ottobre 2017 a Bologna davanti ai giovani, ricordando Lercaro, intrecciando in modo indissolubile il diritto alla cultura, il diritto alla speranza e il diritto-dovere alla pace: “La storia insegna che la guerra è sempre e solo un’inutile strage. Aiutiamoci, come afferma la Costituzione italiana, a ‘ripudiare la guerra’ (cfr art. 11), a intraprendere vie di nonviolenza e percorsi di giustizia, che favoriscono la pace..[…]. Non neutrali, ma schierati per la pace! – insiste papa Francesco – Perciò invochiamo lo ius pacis, come diritto di tutti a comporre i conflitti senza violenza...Vengano alla luce gli interessi e le trame, spesso oscuri, di chi fabbrica violenza, alimentando la corsa alle armi e calpestando la pace con gli affari…”.

Il nostro discernimento oggi ci porta a definire un disastro teologico, ecclesiale, civile la proclamazione di papa Giovanni patrono dell’esercito italiano! È come dichiarare Francesco d’Assisi patrono del sistema finanziario o madre Teresa patrona delle multinazionali. Sulla questione patronato siamo davanti a tre tristi operazioni: alla cattura burocratica-corporativa del Papa noto al mondo per la sua azione di pace; al rilancio religioso-ecclesiastico della teoria della guerra giusta; al tentativo di imbrigliare il magistero di pace di papa Francesco, ritenuto troppo audace, spesso in contrasto con alcune pratiche o silenzi dei vescovi italiani. Forse per molti ecclesiastici la via della nonviolenza, indicata nel messaggio del 1 gennaio 2017, è ritenuta impossibile e pericolosa. Peccato che la vicenda sia stata minimizzata nel Consiglio della CEI di settembre. Nella conferenza stampa a conclusione dei lavori, il suo segretario mons. Galantino riconosce che il patronato è stato un gesto separato, ma ritiene impossibile tornare indietro. Egli invita a “leggere la questione in termini positivi” aggiungendo che i soldati “hanno pur diritto di pregare Giovanni XXIII come loro santo, non capisco perché chi veste una divisa deve essere criminalizzato” (Avvenire, 29.9.2017).

Se vogliamo leggere il patronato in questi termini, occorre dire che l’iniziativa della citata Lettera aperta non ha lo scopo di demonizzare i soldati che possono pregare chi vogliono. Vuole porre l’attenzione al grande divario tra il messaggio di papa Giovanni e il mondo militare inserito in un “sistema di guerra” potente e ramificato, cinico e spietato, radicato in interessi economici, in logiche neocoloniali estranee al diritto alla pace. Ne ha parlato solennemente il 13 settembre 2014, a Redipuglia, papa Francesco a proposito del ruolo dei “pianificatori del terrore”, degli “organizzatori dello scontro” (e dell’“ombra di Caino” che ci ricopre). L’11 ottobre, durante la celebrazione ufficiale del patronato, a S. Maria in Ara Coeli, l’ordinario miliare e generale Santo Marcianò presenta Giovanni XXIII come “modello di pace” per i soldati e la sua missione come “la nostra missione”. La Pacem in terris viene affidata ai militari come “Magna Carta..., punto di riferimento” nella formazione, nelle scelte dei responsabili, nello stile di vita dei soldati che cercano di “custodire la pace difendendo la vita umana, promuovendo giustizia e fraternità, soccorrendo nei pericoli e nelle calamità naturali, accogliendo i profughi e proteggendo i più deboli, nella nostra nazione e nelle missioni estere operando a servizio del bene comune” (Avvenire 12.10.2017).

Se questa è l’intenzione, parlando in modo paradossale, la fedeltà a tale patronato dovrebbe portare l’esercito a imboccare strade che oggi appaiono molto lontane: affidarsi a un tipo di armamento strettamente difensivo; sostenere la trasformazione dell’esercito in forza di polizia internazionale sotto la guida dell’ONU; diventare gradualmente una forza di difesa civile; superare la figura del cappellano militare inserito nella gerarchie militari; chiarire bene il discorso dell’obbedienza. È centrale oggi la questione disarmo (grande tabù politico, economico ed ecclesiale). Un impegno gigantesco che farebbe sorridere o inorridire politici e generali. L’esercito, nutrito (si spera) dalla Pacem in terris, vuole partecipare a questo cammino? Il mondo militare vuole trasformarsi in una forza di polizia internazionale dell’ONU? Rivedere la collocazione nella Nato? Affiancare la nascita della Difesa civile non armata? Sarebbe la rivoluzione.

Una ferita

In ogni caso, occorre dire che nella Chiesa italiana è aperta una contraddizione, sanguina una ferita. Il patronato è un atto realizzato in completa autonomia, frutto di mancata sinodalità e di furbizie ecclesiastiche al di fuori di percorsi e decisioni comuni. Ferisce l’unità ecclesiale che non può essere intesa come unità dei contrari ma come “comunione nelle differenze” (Evangelii gaudium 228). Siamo molto lontani dall’auspicio espresso dal card. Bassetti, presidente della CEI, di operare basandosi su tre pilastri: la fraternità, la corresponsabilità, la collegialità. Siamo ancora dentro le patologie curiali denunciate dal Papa nel dicembre 2014 e ripetute anche il 21 dicembre scorso, quando ha parlato di “traditori di fiducia e di approfittatori della maternità della Chiesa”, di “squilibrata e degenere logica dei complotti e delle piccole cerchie che rappresentano un cancro che porta all’autoreferenzialità”. Tutta la vicenda chiama, quindi, in causa la credibilità della Chiesa, la sua scarsa sensibilità sul tema della pace, in particolare sul disarmo, sulla produzione e il commercio delle armi. Troppo spesso la pace è affidata all’esortazione generica o relegata nella vita privata o delegata al governo. Non è avvertita come “sfida e programma” per tutti e sostanza della nostra fede al punto che “essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza” (La nonviolenza: stile di una politica per la pace, messaggio del 1 gennaio 2017).

Come sono attuali, allora, le parole di Tonino Bello per il quale “il vero dramma” delle comunità cristiane è quello di “non aver ancora assunto la nonviolenza come unico ‘abito da società’ veramente firmato dal Signore”. Dovremmo essere più audaci: “Il Signore ci ha costituiti sentinelle del mattino, annunciatori, cioè, dei cieli nuovi e delle terre nuove”.

55 anni dopo vogliamo tenere viva la profezia della Pacem in terris che ci porta ad assumere un molteplice sguardo (contemplativo, fiducioso, lungimirante): vedere i nuovi segni dei tempi, le “ferite” che possono diventare “feritorie”; vedere la persona oltre ideologie o dottrine (76-85); vedere la nostra capacità di tenerezza: cioè essere tenui e miti; essere tesi e decisi; vedere i germogli di pace che spuntano nel mondo violento e ingiusto. La profezia è capacità di vedere dentro il cuore umano e la storia dei popoli; oltre l’arroganza, la paura e la disperazione; alto sopra i muri e le pareti per cogliere il cielo, le strade e gli incroci; l’altro, il suo volto.

Oggi le nostre preghiere diventano appassionate, simili a quelle di Turoldo traduttore dei salmi, poeta e profeta, e a quelle che don Tonino rivolge al bambino di Betlemme e al Cristo risorto: Chiesa di Dio, dal giorno di Pasqua questo è dunque il tuo progetto politico. Questa la tua linea diplomatica. Questo il tuo indirizzo amministrativo. La pace. Non la tua sistemazione ‘pacifica’. Non il plauso dei potenti, che sarebbero disposti a pagare la metà del prezzo ricavato dalla vendita delle armi pur di comprare i tuoi silenzi sulla guerra. La pace, non il consenso della gente, che è sempre disposta a barattare la libertà con le cipolle d’Egitto. Non ti scoraggiare, Chiesa di Dio…” (Alla finestra la speranza, 76). 

Su questa strada, don Tonino ci accompagna, è in mezzo a noi, anzi la sua eredità viene dal futuro.