A un anno dalla morte di Bruno Amoroso, un suo “discepolo” lo racconta. Le sfide, i sogni, gli studi, l’impegno per cercare un’alternativa credibile e possibile al neoliberismo.
Tutto in una sola vita.
Ho conosciuto Bruno Amoroso in quello che credo sia stato uno dei periodi più difficili della sua vita. Era l’inizio degli anni Novanta. Con la caduta del Muro di Berlino, il neoliberismo imperante non aveva più confini.
L’illusione di alcuni che la fine dell’URSS potesse rilanciare le ragioni della sinistra riformista si era presto rilevata, appunto, un’illusione. Era finito il PCI, ma era entrato in crisi anche il modello scandivano di cui Bruno era stato un autorevole studioso e una voce critica molto ascoltata. Era cambiato il vento e sembrava non esserci più alternativa.
Nuova Europa
Il Trattato di Maastricht ricostruiva l’Europa mettendo al centro gli interessi delle imprese a scapito dello stato sociale e dei diritti dei cittadini. La parte maggioritaria della sinistra europea convergeva ormai su posizioni neoliberiste, magari meno radicali di quelle della Thatcher e Reagan, ma comunque figlie dello stesso paradigma ideologico. Bruno, che sin da ragazzo aveva fatto della politica la passione della sua vita, si sentiva sempre più solo sia in Italia che in Scandinavia. In Danimarca aveva svolto un ruolo importante nella vita intellettuale del Paese. Tutti lo conoscevano. Di molti era stato maestro. A molti altri aveva aperto gli orizzonti, mettendoli in contatto con l’Italia e il Mediterraneo. Era stato protagonista di una stagione felice in cui la Danimarca e la Scandinavia sperimentavano nuove forme di organizzazione sociale. La sua casa era stata un luogo d’incontro per la vita culturale, ma anche un luogo famoso per feste divertenti in cui si facevano le conoscenze più disparate e interessanti. Poi, però, il vento era cambiato.
La Danimarca si era chiusa in sé, pensando di poter difendere il suo welfare trasformandosi in un fortino. Bruno, che era quasi un simbolo di quella Danimarca aperta e curiosa del periodo precedente, si sentiva un pesce fuor d’acqua.
Intanto, anche il mondo universitario cambiava, e tanto più negli studi economici. Gli economisti keynesiani diventavano sempre più una minoranza. A loro si contrapponeva una schiera chiassosa – tuttora dominante – di economisti neoclassici, che nascondeva la pochezza dei suoi argomenti dietro un uso spinto della matematica. Legati agli interessi del grande capitale e sostenuti dalla politica e dai media amici, questi economisti procedevano a un’occupazione quasi militare delle università, prima negli Stati Uniti e poi in Europa e nel resto del mondo. L’università non era più uno spazio libero di riflessione e di confronto, ma sempre più un luogo in cui si predicava il conformismo e il pensiero unico. Anche qui Bruno si sentiva sempre più solo.
Nell’Università di Roskilde, che aveva contribuito a fondare, Bruno conservò sempre la sua libertà, circondato da una cerchia di amici che con lui continuò a collaborare fino alla fine. Ma proprio nell’Università, agli inizi degli anni Novanta, Bruno subì una durissima umiliazione.
Si era presentato al primo concorso da professore ordinario di economia della Danimarca. Aveva i titoli e l’Università di Roskilde sarebbe stata felice della sua promozione. Si mossero allora trame oscure. Un distinto signore danese lo convocò in un caffè di Copenhagen e lo costrinse a ritirare la domanda. Questo signore, che Bruno non conosceva e che non apparteneva al mondo accademico, sapeva tutto della sua vita e del suo lavoro, persino i dettagli dei suoi scritti in italiano. Per quanto ne so, il ricatto usato per spingere Bruno al ritiro si basava su una questione risibile, ma evidentemente il messaggio era troppo forte per essere ignorato.
Con Pietro Barcellona
Bruno ha conosciuto nell’ultimo decennio della sua vita un nuovo periodo molto fertile. La sua voce è tornata a farsi sentire e, soprattutto in Italia, è diventato un punto di riferimento per molti. Eppure, dopo quella oscura vicenda universitaria e in un contesto politico che sembrava non offrire sponde, per una decina di anni Bruno visse una fase difficile. Perse interesse per il lavoro accademico. Senza mai smarrire la sua grande lucidità politica – e, direi, una visione a volte profetica – accentuò la sua vena polemica, prendendo posizioni che spesso spiazzavano e apparivano (o volevano essere) provocatorie. Iniziò a cercare nuove strade. Quelli furono gli anni delle sue ricerche sul Mediterraneo come spazio possibile di co-sviluppo. Ma fu anche il periodo in cui iniziò a interessarsi al Vietnam. Come sempre le passioni di Bruno erano travolgenti. Lo incontrai a Roma in un seminario dell’Istituto per il Mediterraneo e poche settimane dopo lo seguii a Hanoi. Qualche mese dopo, mi trasferii in Danimarca per fare un dottorato sotto la sua supervisione. Non fu facile. Io cercavo una sponda accademica, ma Bruno era preso da altro. Il Vietnam, il Mediterraneo, il Global South erano per Bruno innanzitutto i luoghi in cui cercare forme di legame sociale non snaturate dalla modernizzazione capitalista. Fu in quella ricerca che nacque il sodalizio fra Bruno e Pietro Barcellona, accomunati entrambi nel tentativo di trovare in pratiche comunitarie una risposta alla crisi della politica. Per qualche tempo fu affascinato dagli scritti di Serge Latouche. C’era in quella mitizzazione delle società tradizionali il tentativo di riscoprire pratiche di solidarietà. In Vietnam Bruno appoggiò una struttura di accoglienza per ragazzi di strada e poi aiutò molti di questi ragazzi a inserirsi (alcuni con grande successo) nel mondo del lavoro. Da quel progetto nacque poi l’associazione ReOrient. Avrebbe voluto fare di più – addirittura creare un movimento cooperativo che offrisse opportunità di riscatto a migliaia di giovani diseredati. Ma Bruno era uomo di pensiero, non uno che sapesse gestire gli aspetti organizzativi di una simile impresa. Pesava, poi, in quegli anni, una sua riluttanza a piegarsi a logiche che non sentiva sue.
Con Federico Caffè
Non so se avesse sempre saputo dov’era Federico Caffè, se sia riuscito a trovarlo a un certo punto della sua vita, oppure se l’abbia ritrovato solo dentro di sé. Ma probabilmente fu proprio il rinsaldarsi del rapporto intellettuale con Caffè che aprì la nuova, ultima, fase della vita di Bruno. L’età e poi la malattia prima fecero diradare i suoi viaggi per il mondo e poi gli permisero solo gli spostamenti fra Roma e Copenhagen. Fra la Danimarca dove aveva scelto di vivere, e poi di morire, dove conservava tante amicizie e tanti affetti, e l’Italia, dove aveva ritrovato un ruolo significativo nel dibattito culturale e politico. Gli ultimi anni di Bruno sono stati importanti. La sua ricerca, sempre originale e radicale, ha aperto squarci di riflessione che restano di grandissima attualità. Chi aveva condiviso con lui il decennio precedente quasi si stupisce, nel risentire i suoi discorsi che ancora girano in rete, come Bruno si fosse riappropriato della sua professione di economista cresciuto alla scuola di un grandissimo maestro. I suoi discorsi sulla crisi e sui meccanismi della finanza internazionale non solo rilanciano le idee di Caffè, ma aiutano a capovolgere con autorevolezza la narrazione dominante. Gli ultimi libri, scritti insieme al collega e amico di sempre Jesper Jespersen, provano ad aprire nuove prospettive in risposta alla crisi di legittimità dell’Unione Europea e dell’euro.
La vita di Bruno si chiude con una nota di terribile amarezza. Alla barbarie trionfante sente di poter opporre solo: “Not in my name”. Eppure non rinuncia, fino alla fine, già piegato da una malattia dolorosa, alla battaglia delle idee. La lezione di Bruno non è certo quella di una resa, ma quella di un impegno tenace, continuo, appassionato e spesso travolgente. Non solo un intruso, come si autodefinisce nell’ultimo libro, ma anche un maestro scomodo. Uno che costringe a pensare e mettere in discussione le proprie certezze. È, questa, una lezione che dovremo impegnarci a tenere viva.