Dalla firma degli Accordi di Oslo, il movimento di resistenza nazionale è precipitato in una paralisi generalizzata. Perché quegli Accordi hanno ribaltato lo spirito originario della politica palestinese?
Oslo è stato spesso definito come uno spartiacque della storia palestinese. Ci si riferisce comunemente ad esso come il punto di rottura nella politica palestinese, che segna l’inizio del declino del movimento di resistenza e la fine dell’“epoca d’oro” dei successi rivoluzionari. Il dibattito su come superare le tragiche condizioni create dagli Accordi di Oslo si è spesso focalizzato sulle trasformazioni che ha generato, ponendo un’attenzione solo secondaria alle dinamiche e alle traiettorie che hanno condotto al “fallimento di Oslo”. Durante gli eventi della Nakba (la catastrofe palestinese del 1948, ndt) il movimento di resistenza palestinese aveva concepito e articolato la sua lotta incentrandola sul tema della giustizia, in pieno spirito anti-coloniale, nel quale la liberazione della Palestina storica dalla colonizzazione sionista e il ritorno del popolo indigeno erano intesi come obiettivi fortemente interconnessi. La liberazione completa e il ritorno erano due facce della stessa medaglia, impossibili da scindere. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta gli studenti palestinesi, insieme ad altre componenti della società civile, crearono gruppi popolari di guerriglia, organizzazioni, partiti e sindacati per portare avanti i principi di giustizia, liberazione e “diritto al ritorno” per l’intera nazione.
Sul finire degli anni Sessanta, queste organizzazioni e partiti popolari presero il controllo delle istituzioni dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ancora guidate da notabili palestinesi e componenti elitarie, trasformando l’organizzazione in una più popolare espressione della volontà del popolo. L’OLP, quindi, diventò l’istituzione-ombrello sotto la quale il movimento di base e popolare operava e “funzionava basandosi sul modello dei movimenti di liberazione nazionale mondiali nella lotta anti-coloniale per la liberazione” (Karma Nabulsi, “The PLO: A Positive Model or Doomed for Failure? Part II Roundtable on Palestinian Diaspora and Representation”, nda). Non solo il movimento palestinese era inclusivo, diretta espressione della “comunità immaginata” dei palestinesi e delle loro aspirazioni alla liberazione; era anche concepito dal suo popolo e percepito dai suoi alleati come un movimento rivoluzionario, basato sull’“indivisibile senso di giustizia per tutti” e fortemente interconnesso con la lotta di altri movimenti di liberazione.
Tuttavia, “l’OLP subì una serie di profonde scosse sismiche” che impattarono sulla sua capacità di mantenere una relazione forte con la sua base costituente e di continuare a dare voce alle ambizioni popolari nella sua richiesta di giustizia e liberazione. Questi shock furono in larga parte influenzati dagli spostamenti degli equilibri politici regionali e mondiali, ma agirono da catalizzatori nella alterazione del destino della lotta di liberazione nazionale palestinese. Gli eventi degli anni Settanta – come il Settembre Nero in Giordania e la Guerra del 1973 – richiesero all’OLP di elaborare nuove strategie di lotta: il cambiamento dello scenario arabo e le diverse alleanze e interessi politici regionali, esigevano una rinnovata attenzione all’arena internazionale e costringevano allo sforzo di ottenere riconoscimento a livello internazionale.
Dal Programma dei Dieci Punti in poi
Queste considerazioni condussero all’adozione di un programma politico transnazionale, conosciuto come “Il Programma dei Dieci Punti”, nel 1974. La nuova piattaforma chiedeva la creazione di un’“autorità nazionale combattente” su ogni territorio palestinese rimasto libero come primo passo verso la costituzione di uno Stato laico e democratico nella Palestina storica. Il Programma del 1974 rappresentava una scelta pragmatica per rafforzare la posizione dell’OLP nell’arena araba e internazionale, per ottenere riconoscimento e guadagnare “spazio di manovra” a livello diplomatico. Il Programma iniziava a rappresentare un primo slittamento nel linguaggio e nella retorica dell’OLP verso un più vasto pragmatismo.
Una crisi più profonda con impatti negativi sulle istituzioni transnazionali dell’OLP e le sue relazioni con la sua base costituente, in modo particolare quelli che vivevano fuori dalla West Bank e da Gaza, esplose all’inizio degli anni Ottanta, quando l’OLP fu costretto a lasciare Beirut (nel 1982) in seguito all’attacco israeliano contro i campi profughi palestinesi del Libano. Come conseguenza, le sue strutture e il suo apparato persero coesione ed efficacia, e furono sottoposte a un processo di “burocratizzazione” che ebbe un impatto negativo sulle organizzazioni popolari e sui sindacati, in modo particolare quelli della al-Shatat (letteralmente“Diaspora”, anche se il termine riferito alla condizione palestinese è inadeguato), causando la rapida erosione del loro ruolo nella lotta nazionale.
In questo contesto, incoraggiato dal rinnovato slancio che l’Intifada del 1987 aveva dato alla lotta palestinese, l’OLP cercò di rafforzare il suo legame con il popolo ri-articolando una chiara strategia politica. Nel novembre del 1988 il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC) dichiarava l’indipendenza dello Stato Palestinese, optando per la soluzione a due Stati. Mentre la dichiarazione ben rappresenta l’essenza dell’identità e della lotta palestinese, esso tuttavia tratteggia un incontrovertibile spostamento dall’obiettivo di una “soluzione giusta” a quello di una “soluzione accettabile”. Nonostante i proclami, l’OLP non fu in grado di prevenire il deterioramento che la crisi libanese del 1982 aveva avviato e che sarebbe diventato ancora più profondo con la Guerra del Golfo del 1990-91.
È alla luce di questo contesto storico che andrebbe analizzato Oslo, guardando alle diverse trasformazioni e crisi, a cosa fu ottenuto e a cosa fu perduto nella lunga strada che condusse all’accordo del 1993. Gli Accordi di Oslo, di fatto, formalizzarono uno spostamento sostanziale nel discourse politico palestinese e nella strategia: il focus fu gradualmente spostato da una “lotta di liberazione” a un processo di state-building e di pratiche riguardanti terra, confini, e diritti di rappresentanza. Privando la lotta dei suoi principi fondanti, Oslo ha ribaltato lo spirito originale della politica palestinese: né la liberazione né il ritorno e la giustizia sono stati ottenuti. Piuttosto, gli Accordi hanno condotto a una dipendenza politica ed economica dall’occupante e all’atomizzazione della società palestinese. Infine, gli Accordi hanno delegittimato una leadership che ha finito per agire come “controllore” degli interessi e della sicurezza dell’occupante.
Il fallimento di Oslo
Gli Accordi di Oslo sono stati un tentativo di istituzionalizzare la frammentazione geografica del popolo palestinese in una pletora di interessi politici, ambizioni e lotte diversificate. Riducendo la lotta anti-coloniale palestinese per la giustizia, la liberazione e il ritorno a un mero negoziato su “terra in cambio di pace”, il processo di pace ha trasformato la frammentazione geografica imposta sulla società palestinese in una frammentazione di ambizioni e di strategie politiche. La lotta per la giustizia è stata “suddivisa per capitoli”: la “linea verde”, il “tema dei confini”, la “questione di Gerusalemme” o quella “di Gaza”; il tema della “popolazione arabo-israeliana”, e ancora quello “dei rifugiati”, solo per menzionarne alcuni. Mentre i tentativi di affrontare queste questioni singolarmente venivano portati avanti a diversi livelli politici e diplomatici, il tema politico generale veniva costantemente messo in secondo piano, come se non fosse un’unica omnicomprensiva lotta.
Questa frammentazione politica fu rinforzata dalla costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e dalla conseguente marginalizzazione dell’OLP. Tale riposizionamento dell’OLP e la sua trasformazione politica e infrastrutturale hanno contribuito in modo centrale all’isolamento delle comunità, delle “questioni” e delle rivendicazioni politiche palestinesi.
Con gli Accordi di Oslo, in effetti, il progetto di liberazione nazionale, così come originariamente guidato dall’OLP, fu infranto e le divisioni politiche e geografiche che avevano “individualizzato” la lotta palestinese furono rinforzate. L’OLP è diventato un guscio vuoto, auto-sostenuto dall’eredità di ciò che è stato, da ciò che simbolicamente aveva rappresentato, lasciando cadere nel vuoto le ambizioni politiche del suo popolo. Le conseguenze di questo processo di “de-politicizzazione” della lotta palestinese sono evidenti nelle dinamiche interne degli anni recenti e nella profonda crisi in cui il movimento di liberazione ancora versa.
Dalla firma degli Accordi di Oslo e della conseguente illusione della pace, il movimento nazionale è precipitato in una paralisi generalizzata di strategie e mobilitazioni dal basso. Paralisi generata dall’annichilimento della vera essenza della lotta: la convinzione che “la liberazione potrà essere raggiunta quando le nostre strategie non saranno separate dalla moralità” (Omar Shabban “Palestinianism as the antithesis to Neutralism” Beyond Compromise, ndr), sostituendo la neutralità e l’assenza di significato del linguaggio (politico) legittimato da Oslo.
Questa paralisi ha alimentato l’isolamento della leadership palestinese dalla sua base popolare: siffatto processo ha accompagnato la liquidazione dei diritti dei palestinesi e l’imposizione di relazioni “normalizzate” tra i colonizzatori e i colonizzati, rendendo la leadership complice con l’occupante all’interno di un contesto neo-coloniale. In questo quadro, le crisi tra Hamas e Fatah e il fallimento dei tentativi di riconciliazione degli ultimi otto anni sono stati la più evidente attestazione delle nuove terribili strategie messe in atto da Oslo, e delle condizioni coloniali ancora più complesse imposte sul popolo palestinese. Allo stesso modo, l’iniziativa per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte delle Nazioni Unite nel 2012 dovrebbe essere compreso come parte dello spostamento politico ratificato da Oslo. La dichiarazione di statualità – giunta in uno dei momenti più tragici della storia palestinese, con una leadership superata, interessata più alla riconquista di legittimazione internazionale che non al sostegno popolare – è stata solo un altro tentativo di assicurare il perdurare dei negoziati, della normalizzazione economica e sociale, e della cooperazione sulla sicurezza in linea con lo “spirito di Oslo”. Questa strategia conferma l’“ossessione” della leadership palestinese per le pratiche di state-building e il compromesso acritico e l’ostinazione a negare le tragiche conseguenze che l’abbandono del quadro di riferimento anti-coloniale hanno implicato per la lotta palestinese e il suo popolo, in modo particolare i rifugiati. Inoltre, ha evidenziato l’incapacità di rimettere giustizia e liberazione al centro della lotta e, allo stesso tempo, l’incapacità di ri-situare la rivoluzione palestinese nel più ampio contesto della resistenza transnazionale contro oppressione e colonialismo.
In linea con quest’approccio pragmatico, l’establishment palestinese e i partiti storici sono stati incapaci – e indisponibili – a ripensare il proprio ruolo e quello della lotta palestinese nelle rivolte popolari arabe. Diversi analisti hanno sottolineato come le rivoluzioni arabe avrebbero potuto favorire una rivitalizzazione del progetto di liberazione palestinese, e la ri-articolazione di una visione anti-coloniale basata sulla solidarietà regionale.
Il sogno della Primavera Araba
La Primavera Araba ha ispirato la gioventù palestinese “libera dall’eredità del fazionalismo dell’OLP”, che ha preso le strade della Cisgiordania rivendicando unità e cambiamento della strategia del negoziato e del compromesso. Tuttavia, mentre questi gruppi non organizzati tentavano di rivitalizzare la dialettica politica all’interno del movimento palestinese, le fazioni storiche e diversi settori della società palestinese, bloccati nella visione sociale neoliberale di Oslo, sono stati incapaci di mobilitarsi per un cambiamento radicale.
Quest’incapacità è stata particolarmente problematica nel contesto della rivoluzione siriana, con il campo palestinese (di Yarmouk, ndt) sotto assedio: quasi l’intero spettro degli attori politici palestinesi hanno preso le distanze dalle rivolte popolari in Siria.
Alla luce degli sviluppi nelle politiche palestinesi indotti da Oslo, credo che l’unico modo per riparare alle ingiustizie causate dagli Accordi sia operare un cambiamento nella visione politica e nel discourse del movimento palestinese, e ri-contestualizzare l’intera lotta nella sua originaria natura anti-coloniale. È necessario riposizionare la causa palestinese nel più ampio spettro delle lotte per la giustizia e la liberazione, l’unico quadro e l’unica lotta che possano sfidare con successo la condizione coloniale sia della società che della terra. I palestinesi dovrebbero ritrovare unità d’intenti e principi base in grado di guidare un movimento dal basso transnazionale. Il popolo palestinese stesso dovrebbe riunificarsi, e non in senso retorico, ma lungo le linee di un progetto politico capace di superare le dispersioni e “ricostruire” la loro società intorno alla comprensione dell’intrinseca e indivisibile coesione della lotta per la liberazione completa dalle strutture coloniali imposte sulle loro vite. Un processo che senza dubbio necessita serie analisi e onesti dibattiti sul come riorganizzare il popolo e la lotta, come mobilitare le nuove generazioni e come unire la molteplicità delle esperienze, delle visioni, dei background e delle ideologie che caratterizzano la politica palestinese. Ma è un passo necessario per riportare in vita il movimento nazionale.
È anche necessario ri-contestualizzare la questione palestinese nella lunga storia delle rivoluzioni anti-coloniali: la lotta palestinese dovrebbe essere analizzata e compresa attraverso lenti diverse, in una dimensione che non concepisca quella palestinese come una lotta isolata. Piuttosto, è importante “ricostruire il senso dell’indivisibilità della giustizia” che era alla base della rivoluzione palestinese, e considerare “le particolarità del sionismo come parte di una genealogia di colonialismo di insediamento e ingiustizia transnazionale”. È fondamentale ritrovare lo spirito di partecipazione verso altri popoli oppressi e il senso di responsabilità verso tutte le altre lotte di liberazione, per la libertà e la giustizia, che hanno sempre animato il movimento palestinese.
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Quest’analisi è stata originariamente pubblicata in: http://allegralaboratory.net/the-road-to-oslo-and-its-reverse-palestine/. La traduzione dall’inglese è a cura di Cecilia Dalla Negra.
La versione integrale dell’articolo, corredato di note e bibliografia, è pubblicato nella rubrica “mosaiconline”.