A fronte dei venti di chiusura dell’ultimo anno e delle basse maree della solidarietà, c’è un altro mondo possibile già in corso.
Fatto di gruppi, di persone, di idee, di accoglienza e di vera integrazione nel tessuto sociale.
Abbiamo appena chiuso un anno disonesto, che ha fatto avanzare la bassa marea del nostro tempo, con inevitabili sentimenti di incertezza e spavento.
Alle inguardabili vicende che hanno segnato la violenta politica istituzionale sul tema delle migrazioni in Italia nel 2017, abbiamo visto corrispondere provocazioni sfrontate da parte di gruppi dell’estrema destra che in più città hanno sfruttato il clima culturale confuso del Paese per occupare spazi fisici, e la visibilità dei media, inneggiando alla difesa dell’identità improbabile dell’italica stirpe. L’irruzione a Como del gruppo di teste rasate Veneto Fronte Skinheads durante un’assemblea pubblica organizzata dagli aderenti alla rete di associazioni e movimenti per l’accoglienza dei migranti Como Senza Frontiere, con tanto di interruzione dei lavori e lettura di comunicato, è forse la rappresentazione plastica più inquietante della pericolosa notte che attraversa la società italiana. “Onde di rabbia e di paura/circolano per le luminose/ e oscurate contrade della terra, / ossessionando le nostre vite private”, le parole del poeta W.H. Auden dicono bene che cosa ci stia succedendo.
Se l’Italia dell’urlo gutturale è quella che si racconta, ce n’è un’altra assai meno depressa e apologetica che la nuova identità del nostro Paese la sta costruendo da tempo, nel solco di una storia millenaria che ha visto popoli e tribù attraversare il nostro suolo in lungo e in largo, dai fenici ai germanici agli arabi, mescolando stirpi e comunità per secoli, sì da fare quella miscela umana che è oggi il popolo italiano. Questa Italia ha preso di petto le sfide della globalizzazione senza farsi soverchiare dalla paura, avendo compreso che le nuove forme della mobilità umana non si possono fermare con i manganelli, con il mare, con i muri, e neppure con i Minniti di turno. E così sta sul pezzo della sperimentazione sociale e culturale, decisa a declinare le nuove convivenze nel segno dei diritti e del rispetto reciproco.
Nuove mappe
È esiziale che sia assai meno rappresentata sui media, perché incontrarla è un’iniezione contagiosa di energia, un affacciarsi confortante con intelligenze che si cimentano positivamente con le irrimediabili difficoltà di un approccio aperto, curioso e realista. Realista, certo. Mentre i governi europei fanno a gara per fermare i viaggi della speranza, la Commissione Europea ha pubblicato nel giugno 2016 il Piano d’Azione per l’Integrazione dei Cittadini dei Paesi Terzi, in risposta al crescente numero di persone migranti in arrivo, dove si afferma che l’integrazione è pre-condizione per una società che possa divenire inclusiva, e dunque più prospera. Non solo i costi della mancata integrazione – dice la Commissione Europea – sono molto più elevati rispetto ai costi di investimenti in politiche che sappiano riconoscere la presenza dei migranti tra noi. C’è anche il fatto che le persone migranti possiedono una sconfinata capacità di resilienza che consente loro di avere successo fin dall’inizio del percorso, qualora siano inclusi e ricevano supporto e risorse adeguate.
Conviene all’Europa, dunque, avere politiche che permettano alle persone migranti di contribuire come membri attivi delle nuove società. E di questa dinamica ci si rende conto facilmente, basta andarle a cercare le iniziative che incoraggiano incontri tra cittadini europei e persone migranti in un’ottica di cittadinanza partecipativa che sa aprire orizzonti nuovi dove apparentemente sembra impossibile. Mappe esistenziali per la costruzione di nuove comunità. Di community building parla appunto la ricerca europea I Get You promossa dal Centro Astalli insieme alla Commissione Europea che scova, mappa e illumina le buone pratiche di creazione di tutti quegli spazi che “non siano né tuo né mio ma nostro, aprendosi alla comprensione reciproca”, come sottolinea il presidente del Centro Astalli, Camillo Ripamonti, nella prefazione della ricerca. Sono molte e accattivanti, le esperienze riportate in diversi Paesi europei, “frutto di un vivere civile umano e umanizzante che si costruisce insieme; non qualcosa di già acquisito una volta per tutte, ma che sa modellarsi sui cambiamenti di una società in cammino anch’essa […] una società che sa riconoscere nella diversità dell’altro una ricchezza e una sfida”.
La Casa dei Venti
La Casa dei Venti, realizzata con il Laboratorio 53 a Roma, è uno spazio in cui i migranti forzati, soprattutto quelli più vulnerabili, possono sentirsi a casa; un centro aperto con regolarità (5 giorni a settimana) che offre servizi di assistenza per i nuovi arrivati, gruppi di auto-aiuto, supporto legale, consulenza individuale e lezioni di lingua italiana. L’orizzonte è andare oltre la mera nozione di “integrazione”, un meccanismo che rischia di essere forzato anch’esso, e rendere le persone rifugiate indipendenti, facendo leva sulle loro competenze. Non ci sono “beneficiari”, alla Casa dei Venti. Migranti, volontari e personale sono trattati alla stessa maniera e vivono una condizione di pari dignità, chiamati come sono a riflettere costantemente sul metodo di lavoro orizzontale che è per sua natura sempre incerto. “Perché siamo tutte e tutti persone in cammino”, come richiama Monica Serrano, fondatrice di Laboratorio 53.
Lo stesso spirito anima Tandem, una sperimentazione di co-housing avviata da CIAC (Centro per l’Immigrazione, l’asilo e la cooperazione internazionale) a Parma. Il progetto Tandem punta a una buona accoglienza diffusa, integrata, in piccoli appartamenti: si vuole provare a mettere sotto lo stesso tetto giovani italiani tra i 18 e i 29 anni – studenti, disoccupati, precari - e persone rifugiate titolari di protezione, per creare un’interazione innovativa in grado di rispondere alla precarietà attraverso convivenze solidali e sostenibili ed esperienze interculturali di cittadinanza attiva e volontariato. L’esperienza si realizza in due appartamenti offerti in comodato d’uso gratuito da un privato e da un’associazione: 4 italiani e 4 stranieri convivono per un anno pagando una quota di 140 euro mensili. Lo scopo non è solo quello di fornire un alloggio decoroso, ma anche di promuovere legami per entrare nel tessuto sociale della città. Questo tentativo di coabitazione lo racconta molto bene Amir, pachistano di 28 anni, che ne è protagonista: “Ho trascorso molti mesi nello SPRAR (il sistema di prima accoglienza dei rifugiati, ndr) senza fare nulla, senza saper bene che ne sarebbe stato di me. Oggi sono un’altra persona: finalmente ho un lavoro all’Ikea di Parma, ho le bollette da pagare, la spesa da fare, capisco tutte le piccole questioni di gestione della mia vita, e non mi sento solo”.
Voci
Ma l’esperienza più accattivante e fuori dagli schemi consueti è quella del Consorzio Solidalia che, in collaborazione con l’Università di Palermo, il Comune di Marsala e la soprintendenza di Trapani ha organizzato tirocini formativi per rifugiati in un campo di scavi archeologici insieme a studenti italiani sull’isola di Mozia, nell’ambito della campagna condotta dal prof. Gioacchino Falsone. Un’opportunità del tutto inconsueta di forgiare reti sul territorio, nel segno di relazioni che riconoscono un ruolo. I rifugiati hanno potuto apprendere le tecniche archeologiche necessarie per stare in missione come operatori attivi. “All’inizio io non avevo neppure un’idea di che cosa fosse l’archeologia, e ho dovuto cercare la parola su internet”, racconta il giovane rifugiato Madia, del Senegal, che ha fatto parte del primo gruppo di formazione e lavoro sugli scavi. Islam, pachistano di Lahore, ha già operato in tre scavi, tra cui uno con l’università di Ginevra, e vuole continuare; il fatto di stare sullo scavo alla pari con gli studenti italiani, e accanto ai docenti universitari, ha avuto un impatto enorme sulla sua auto-stima. E lo conferma Pietro Giammellaro, dottorando che ha seguito il progetto dal suo concepimento ad oggi quando cerca di spiegare l’impatto gigantesco che la presenza dei rifugiati ha prodotto in tutte le attività dello scavo: “l’attenzione alla terra dei ragazzi che vengono da paesi lontani, la dedizione al lavoro che sporca, senza fare difficoltà di specie, sono state competenze straordinarie che hanno insegnato molte cose ai nostri studenti, più riluttanti al lavoro di fatica, e di manipolazione della terra”. Ma anche sotto il profilo relazionale ci sono state trasformazioni importanti: fuori dal circuito tradizionale del sistema migrazioni, i nostri ragazzi hanno dovuto rivedere gli stereotipi di chi si contempla come la sola cultura, per relazionarsi ad altre culture e approcci nel lavoro che unisce e affatica. Oggi sanno che impersonano una cultura, quella occidentale, in mezzo ad altre, che hanno molto da insegnare”.
Insomma, noi non integriamo loro. Tutti e tutte ci integriamo. Facciamo un passo avanti insieme per costruire un altro scenario: la società italiana che ancora non vediamo bene, ma che già esiste, in piccoli sparsi luoghi del nostro territorio.