Siamo una sola umanità, nonostante i crescenti e preoccupanti rigurgiti di nazionalismo, localismo e razzismo.
L’ostilità verso lo straniero è un fenomeno ricorrente e persino monotono che riemerge ogni volta che i popoli sono ridotti a popolazioni oppresse, disperse, impaurite e impoverite.
La logica del “prima noi, poi loro” diviene ovvia e persino morale. Prima devi aiutare “i tuoi” e poi, semmai, gli estranei. Anzi questi ultimi vanno non aiutati ma respinti perché sono rivali che sottraggono denaro, energie, spazi, lavoro e identità.
Il contagio della xenofobia attua la degenerazione della mentalità collettiva sotto la pressione dell’angoscia per la sopravvivenza e mostra come una politica fondata sul potere presto o tardi diventa una politica violenta, paranoica e persecutoria, rispetto a cui alla fine nessuno può sentirsi al sicuro.
Di fronte a questo contagio di massa della xenofobia non si può restare passivi e rassegnati, occorre agire praticando un’accoglienza che sia, più che un gesto di “carità” (termine quanto mai ambiguo), l’espressione del metodo della giustizia. Parlo della giustizia secondo la dignità delle persone e secondo il valore del legame indissolubile tra tutti gli esseri umani. È già sbagliata la credenza nel concetto di “straniero”: nessuno viene da Marte o da Giove, il cosiddetto “straniero” ha una sua differenza come quella che in effetti ha ciascuno rispetto a ogni altra persona. L’identità particolare mia o tua è sempre relativa, la relazione è assoluta e indistruttibile. Perciò bisogna coltivare un’autentica coscienza del mondo.
Essa sta maturando con grande fatica, tra rigurgiti di nazionalismo, localismo, settarismo, neofascismo, populismo e razzismo. Ma c’è e cresce. Noi siamo responsabili del fatto che questo sviluppo abbia luogo anche in Italia. La coscienza del mondo è la certezza che siamo una sola umanità, fatta di tanti volti, storie, tradizioni, differenze relative, ma pur sempre la stessa umanità sulla terra che ci ospita. Nessuno è padrone, nessuno accoglie senza nel contempo essere a sua volta accolto per un verso o per l’altro. Nessuno può dire “prima noi”: tutti siamo tenuti a scoprire che cosa voglia dire affrontare i problemi insieme. La fraternità e la sororità etiche, dove ognuno riconosce che la sorte degli altri lo riguarda, sono lo statuto del nostro stare al mondo. Le identità particolari non hanno il diritto di spezzare l’unità della comunità umana universale.
È vero che oggi molti cedono al conformismo della logica del respingimento verso chi è sentito diverso. Mi riferisco alla risposta che si dà ai migranti e più ampiamente ai popoli tuttora devastati da un colonialismo che non è mai finito. Mi riferisco all’attesa legge sullo jus soli che porta a superare il vincolo razziale tra sangue e cittadinanza tipico dello jus sanguinis. Mi riferisco inoltre al decreto del ministro dell’Interno che consente ai sindaci di allontanare chi crea un problema di “decoro urbano” (ossia i poveri, i mendicanti, i rom).
Aumenta, alimentato dolosamente dai partiti che ci guadagnano voti, il risentimento nei confronti dei respinti dal sistema. Si diffonde la classica mentalità parafascista fatta di xenofobia, odio per il Parlamento, voglia di “legge e ordine”, obbedienza al capo carismatico, brama di prendere il potere per ridurre gli altri al silenzio. Questa miscela si alimenta di ignoranza storica, di miopia etica e della presunzione di essere migliori di tutti.
L’antropologo Arjun Appadurai ha ricordato che in India si sta rafforzando un cosmopolitismo dal basso, dove proprio i più poveri, anziché accanirsi contro chi è diverso e magari anche più povero di loro, imparano ad accogliere le differenze, ad apprezzarle, ad affrontare insieme i problemi posti dall’esclusione sociale e dal potere dominante. Egli ci ricorda che “l’obbligo di essere cosmopoliti è un’assoluta condizione di sopravvivenza della democrazia profonda” (A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale, Raffello Cortina, p. 291), cioè di quella democrazia che è un modo di convivere lavorando all’attuazione dei diritti di tutti.
Dinanzi a ogni questione che ci chiede una presa di posizione lucida, l’ampliamento dei nostri orizzonti etici e politici verso l’universalità umana e verso il valore della natura è necessario per non cadere in una regressione di civiltà che, con la democrazia, spazzerebbe via anche qualsiasi esperimento di economia alternativa. Ecco perché non c’è mondo comune senza coscienza etica e non c’è futuro senza che la cultura della democrazia si sviluppi vincendo la solita duplice tentazione di affidarsi a un capo e di sfogarsi su un capro espiatorio.
Accoglienza, restituzione e cammino comune sono le parole-chiave che schiudono l’orizzonte adeguato per chi sa vedere la contraddizione insostenibile costituita dalle migrazioni forzate di massa del nostro tempo. Sono parole che indicano il giusto orientamento per il presente e per il futuro. L’accoglienza è il contrario di quel respingimento che considera gli altri, e soprattutto quelli che più sono in pericolo, come bestie, oggetti o entità da ignorare. La restituzione dei diritti è il contrario della continua espropriazione che gli antichi colonizzatori europei fecero e continuano a fare in forme aggiornate. Il cammino comune è quello che si deve cominciare a svolgere quando comprendiamo finalmente che la risposta che sapremo dare al grido dei migranti è la base per la società futura.
Possibili risposte
Bisogna riflettere sul fatto che il termine “migrazione” è ambivalente: da una parte si riferisce a una costrizione insopportabile, che obbliga allo sradicamento violento dalla propria terra, dalla casa, dagli affetti, dalla lingua materna, dalla propria identità. Questo fenomeno è il pervertimento orribile del significato autentico del migrare, che come tale, d’altra parte, è da sempre una dinamica essenziale della condizione umana. Infatti, l’esistenza di tutti noi è un viaggio che tende alla sua vera destinazione, non è un mero esercizio di sopravvivenza fine a se stessa. Il filosofo e giornalista della Guinea-Bissau Filomeno Lopes, nel suo libro Dalla mediocrità all’eccellenza. Riflessioni filosofiche di un immigrante africano (edizioni SUI, 2015), sostiene che questo vero significato va liberato e realizzato, il che accade quando transitiamo dal paradigma della migrazione coattiva, funzionale agli interessi dei dittatori e degli speculatori, al paradigma dell’ospitalità.
Le migrazioni coattive sono una delle contraddizioni più gravi della società globale e derivano dall’intreccio tra il retaggio del vecchio colonialismo, la complicità di molti governi locali, più o meno dittatoriali e corrotti, e le dinamiche di conquista messe in atto da multinazionali e gruppi speculativi. Di fronte a questa contraddizione insostenibile, l’Unione Europea come tale e molti governi europei chiudono gli occhi: non vedono né gli stranieri, né gli stessi europei. Di qui l’ottusa politica di chiusura delle frontiere e di delega della gestione del problema a singoli Paesi. Ormai è chiaro che la nostra politica manca di coscienza etica, di respiro culturale, di fondamenti costituzionali e di progettualità.
Perciò è urgente lavorare per la costruzione di una risposta completamente diversa, che preveda: un progetto europeo per l’accoglienza e per il transito sicuro dei migranti dalle loro terre; una politica internazionale, con respiro mondiale e non solo europeo, tendente a guarire le situazioni incancrenite che causano le migrazioni forzate; un progetto di sviluppo della democrazia che, ascoltando le istanze dei migranti, allestisca condizioni decenti di vita per tutti, Paese per Paese.
Restare prigionieri dell’ideologia dello straniero-nemico significa consegnarsi a occhi chiusi a una spirale disgregatrice in cui in realtà vengono compromesse anche le relazioni tra gli italiani, tra i vicini e persino con noi stessi. Infatti quando respingiamo un altro, di fatto respingiamo la nostra stessa umanità e spezziamo quel legame di universalità e di ospitalità che è il fondamento antropologico della democrazia.