Un’avventura ecumenica: le braccia aperte verso l’altro. Ponti di accoglienza e di solidarietà in corso in Italia.
Il 17 novembre il team ecumenico composto da rappresentanti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, della Tavola Valdese e della Comunità di Sant’Egidio ha sottoscritto un nuovo protocollo con i ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri per l’apertura di un nuovo corridoio umanitario che, nei prossimi due anni, consentirà a mille migranti in condizioni di vulnerabilità di raggiungere legalmente e in sicurezza l’Italia.
Nel tempo della “fortezza Europa” che si attiva per chiudere ogni fessura che consenta l’ingresso di migranti e richiedenti asilo, si tratta di una buona pratica in netta controtendenza, un piccolo “miracolo italiano” da coltivare e riproporre. Come per altro è accaduto in Francia e in Belgio dove, sull'onda del successo italiano, l’esperimento è stato ripreso ed è in via di realizzazione. Ma di corridoi umanitari si parla anche in sede europea, in Germania, in Svizzera. Il modello, insomma, incontra un certo consenso e, insieme ai resettlement operati in collaborazione con l'ACNUR, al momento costituisce l’unica alternativa ai traffici umani o alla disperazione nei campi migranti della Libia.
Cosa sono?
Ma che cosa sono esattamente i “corridoi umanitari”? Come sono nati e come sono stati gestititi sin qui? Iniziamo col dire che, tra le altre cose, sono frutto di una collaborazione ecumenica che conta almeno due decenni. In questi anni, cattolici e protestanti spesso si sono trovati insieme a promuovere Campagne per i diritti dei migranti, a collaborare per provvedere alla loro accoglienza e integrazione, a chiedere con insistenza leggi più giuste e sostenibili a garanzia dei loro diritti fondamentali. Di tutto questo si era parlato anche nel consueto appuntamento internazionale promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, ad Anversa nel 2014. In quell'occasione il moderatore della Tavola valdese, past. Eugenio Bernardini, ebbe un fruttuoso scambio di idee con i vertici della Comunità, a iniziare da Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo. Il dramma delle migrazioni globali era sotto gli occhi di tutti; a settembre dell’anno prima si era consumata la strage di Lampedusa in cui erano morte 368 persone e altri simili incidenti si erano ripetuti in una sequenza che urtava la coscienza e la morale cristiana oltre ogni limite. In quei mesi era evidente che gli “incidenti” erano il frutto di una politica sconsiderata di progressiva chiusura dei confini e di respingimento dei migranti e dei richiedenti asilo verso un confine virtuale posto sempre più a Sud.
Di fronte alla sequela di morti in mare annunciata e prevista, che cosa si poteva fare? Che cosa cattolici e protestanti potevano fare insieme? Intendo dire qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a quello che già facevano da anni sul piano dell’accoglienza e dell’integrazione? E, soprattutto, che cosa si poteva fare per arginare il fenomeno del traffico coi barconi, offrendo vie sicure e legali almeno ai soggetti più vulnerabili? Il contesto politico europeo appariva condizionato da governi e maggioranze sempre più ostili alle migrazioni e asserragliate in politiche di espulsione o di chiusura delle frontiere: in quel quadro ipotizzare nuove leggi o riforme positive del diritto d’asilo risultava irrealistico e velleitario. E di fronte alla ricorrenza delle stragi, non si poteva sognare una nuova legge italiana o europea che non sarebbe mai arrivata; bisognava lavorare con le norme vigenti e cercare uno “spiraglio”, un “aggancio” al quale afferrarsi per proporre una via legale e sicura per l’arrivo in Italia. Per dirla con un linguaggio etico serviva un “compromesso” con il realismo.
Una breccia di speranza
Un gruppo di esperti evangelici e cattolici si mise dunque al lavoro, alla ricerca di norme utili ad aprire una breccia nella “fortezza Europa”. Alla fine di questo processo durato alcuni mesi emerse la possibilità di utilizzare l’articolo 25 del Trattato sui visti di Schengen: in sintesi, si tratta di un dispositivo che, in condizioni particolari, consente a uno Stato aderente, di rilasciare visti “umanitari” che permettono l’arrivo sicuro e legale nel Paese che li ha emessi. Giunto nel Paese, il beneficiario può avanzare regolare richiesta d’asilo o di protezione internazionale.
Individuata la norma a cui afferrarsi, occorreva però definire il profilo dei beneficiari: innanzitutto dovevano essere soggetti vulnerabili la cui sicurezza era palesemente a rischio; inoltre, dovevano essere persone dotate dei requisiti necessari a ottenere l’asilo in Italia. Lavorando su questi presupposti, abbiamo quindi individuato alcuni profili dei potenziali beneficiari: persone che fuggono da situazioni di guerra in atto – pensiamo a chi fuggiva dalle città distrutte della Siria – o di gravi persecuzioni individuali e collettive; donne vittime di tratta; donne sole o con figli minori: persone bisognose di cure urgenti non disponibili nei Paesi in cui si erano rifugiate. Quindi, abbiamo iniziato a ragionare sulle provenienze, sui Paesi dai quali provare ad aprire i corridoi: il Libano si imponeva di per sé; il Marocco sembrava essere un’altra stazione importante a causa della concentrazione di richiedenti asilo provenienti dal West Africa – sono ben note le emergenze umanitarie in Mali e in alcune regioni della Nigeria; infine, dall'Etiopia, dove si raccolgono molti rifugiati che fuggono dalle violenze etnico-religiose in Sudan, dalla dittatura eritrea o dagli scontri per bande che negli anni hanno distrutto la Somalia.
Definiti questi aspetti abbiamo avviato un costruttivo negoziato con i ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri nei quali ognuno ha fatto la sua parte: le istituzioni hanno fatto valere il loro punto di vista, evidentemente condizionato dal quadro europeo; così come il team ecumenico ha richiamato le ragioni etiche che stavano alla base della proposta. Eravamo in una fase difficile delle relazioni tra l’Italia e la UE: da una parte, infatti, l’Europa attaccava l’Italia per la “porosità” delle sue frontiere e, dall'altra, negava il sostegno alla prosecuzione della missione Mare Nostrum per prediligere altre soluzioni. La proposta dei corridoi umanitari, insomma, veniva avanzata in un momento difficile. Riteniamo che anche per questo siano stati necessari alcuni mesi perché potesse essere valutata e considerata dalle varie strutture istituzionali (Consolati, Polizia di Stato, ministero Interno…) che, in un modo o nell'altro, sarebbero state coinvolte. Alla fine di questo processo, il 15 dicembre del 2015, è arrivata la firma istituzionale e con essa l’avvio del progetto.
Un nuovo corridoio umanitario
Ora, come si diceva, siamo alla seconda edizione e in un quadro europeo non meno difficile di due anni fa: l’apertura nel 2017 di un altro corridoio gestito dalla Confederazione Episcopale Italiana con altre strutture cattoliche, compresa la Comunità di Sant'Egidio, è però la prova della consistenza di un “modello italiano” che va fatto valere in Europa.
Ma ciò che va sottolineato è che, arrivati in Italia, i beneficiari entrano in un percorso di integrazione che comprende scolarizzazione, formazione, avvio al lavoro, sostegno psicologico. Il modello di accoglienza è “diffuso”, nel senso che prevede la costituzione di piccoli nuclei che si autonomizzano nel tempo; e al tempo stesso “partecipato”, perché si sviluppa anche grazie all'attivazione di gruppi di sostegno locale, come quelli che si possono esprimere in una parrocchia o in una chiesa evangelica. E la grande sorpresa è che i promotori del progetto abbiano ricevuto molti e importanti riscontri ai loro appelli: privati, aziende, comunità religiose hanno messo a disposizione alloggi, risorse, tempo per “accompagnare” i beneficiari dei corridoi umanitari. In questo lavoro, insomma, abbiamo conosciuto una bella Italia, che nessuno racconta e riconosce ma che invece merita una grande attenzione. A due anni dall'avvio del progetto, abbiamo tutti gli elementi per ricavare un bilancio di questa esperienza. Ma per chi l’ha ideato e realizzato è importante rilevare che un gruppo di cristiani abbia fatto quello che sentiva di dover fare, gestendo un rapporto dialettico ma costruttivo e concreto con le istituzioni.
Nel tempo, anche di fronte alle crisi che accompagnano ogni progetto umano, ci ha accompagnato una celebre frase di Martin Luther King: “La vigliaccheria chiede: “È sicuro”? L’opportunità chiede: “È conveniente”? La vana gloria chiede: “È popolare”? Ma soltanto la coscienza chiede: “È giusto”? Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta”.