Liberarsi dalle paure, creare una nuova cultura dell’accoglienza. E soprattutto riaffermare il primato della persona e il suo sviluppo integrale: ecco le priorità di ogni persona di buona volontà e di ogni credente.
Nel mondo, ogni giorno 28.300 persone sono costrette a fuggire dalle proprie case. La metà di costoro sono bambini, spesso soli. E il numero totale di chi scappa da guerra, fame e persecuzioni continua a salire: 65,6 milioni alla fine del 2016, 300 mila in più rispetto all'anno precedente. Di questi, 2,8 milioni sono richiedenti asilo.
Da decenni assistiamo a questo flusso ininterrotto di migranti che tentano ad ogni costo il “viaggio della loro vita” e non si può discriminare tra immigrati per fame e immigrati perché rifugiati politici. È una distinzione tra bisogni di serie A e di serie B che, se può avere un senso da un punto di vista giuridico, è inaccettabile da un punto di vista etico. E ancor meno è accettabile come cristiani.
“Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate”. Così papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2018.
Al punto n.4 del Messaggio, il Santo Padre richiama la necessità di “una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. In particolare, sottolinea che integrare “significa permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano integrale delle comunità locali. Come scrive San Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio»”.
Forse dovremmo anche ricordarci di quando eravamo noi a emigrare e a chiedere accoglienza. Questo è un momento storico che richiede a tutti di ripensare e rimettere al centro le relazioni tra gli uomini. Senza considerare in tutto questo l’aspetto economico che, ad esempio, ci dice come già oggi tante nostre fabbriche si reggono sul lavoro dei migranti, così come le nostre classi scolastiche vedono ormai una presenza determinante di bambini e ragazzi immigrati. Giungono in Italia dove si fermano per scelta o semplicemente perché costretti a rimanere nel Paese di primo ingresso da anacronistiche normative. Il tentativo di superare questo dispositivo con la misura del ricollocamento è sostanzialmente naufragato insieme ai sogni e alle speranze di tanti migranti.
C’è, dunque, una cultura dell’accoglienza da cambiare e lo dovrà fare la Chiesa perché è guidata dal Vangelo, ma anche da chi fa politica e guida la Nazione, attraverso leggi che tengano conto del bene comune e riescano a coniugare responsabilità e accoglienza. Guardando la realtà, ragionando con calma, senza trincerarsi dietro la paura.
Certo è che accoglienza e condivisione non sono valori che si possono imporre. Se, partendo proprio dalla crisi, riusciamo a generare alleanze, a coagulare energie, ad aggregare soggetti diversi su proposte che sostengano i valori comuni della reciprocità e della fraternità, dell’equità e della democrazia, allora saremo anche in grado di ristabilire alcuni primati che, oggi, appaiono invertiti rispetto al loro ordine: il Vangelo sulla legge; l’uomo sulle regole dei codici; il servizio sul potere.
Per contrastare il rischio di nuove barbarie, nelle relazioni fra i popoli, nei rapporti fra fedi diverse, nel venir meno di un’idea comune sulla dignità umana anche all’interno delle nostre città, possiamo e dobbiamo riaffermare il primato della persona e dello sviluppo integrale dell’uomo, di ogni uomo, cercando – con caparbietà e nonostante tutto – spazi per costruire pace, agire e credere in un mondo riconciliato, dove le differenze siano linfa nuova e non occasioni di sospetto e di conflitto.
“Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro – ricorda papa Francesco nel suo Messaggio e aggiunge: “Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace”.
Per quanto riguarda la Chiesa in Italia, tutte le Diocesi hanno cercato di moltiplicare gli sforzi, sia attraverso il circuito istituzionale, sia attraverso un impegno diretto e proprio. Si continua così a garantire l’accoglienza ad oltre 23 mila richiedenti la protezione internazionale, anche attraverso percorsi innovativi, capaci di avvicinare le persone, le loro storie e le loro fragilità. Stiamo chiedendo alle parrocchie, alle famiglie e agli istituti religiosi di vivere questa grande vicenda storica da protagonisti, accogliendo e accompagnando i nostri fratelli e le nostre sorelle in questo lungo e difficile cammino che li ha condotti, fuggiaschi e raminghi, dai propri Paesi fino in Italia.
Va detto, inoltre, che le diocesi sono attive con un lavoro quotidiano per il bene comune, spesso realizzato con le istituzioni, di incontro, ascolto, mediazione culturale e sociale, tutela dei diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Certamente, è altrettanto vero che si può e si deve fare di più. Non possiamo nasconderci la difficoltà, sperimentata ogni giorno, di incidere concretamente nella mentalità della comunità ecclesiale e civile. Quanta distanza e contrapposizione permane, in larghe fasce di popolazione anche delle nostre comunità parrocchiali, tra le molteplici azioni di accoglienza messe in atto in questi anni dalle numerose realtà di Chiesa e la disponibilità all’accoglienza, alla relazione e all’integrazione degli immigrati nelle ordinarie situazioni della vita quali il condominio, il lavoro, la scuola, le amicizie, il tempo libero? È come se tutta la ricchezza delle molteplici opere ed esperienze donate in questi anni fosse una “luce sotto il moggio”. Non illumina e non scalda, né le menti, né i cuori, né le prassi, né le scelte di vita e di politica dei nostri territori. Dobbiamo chiederci perché.
Partendo dalla consapevolezza che l’immigrazione non è un problema che riguarda soltanto chi arriva, ma anche chi accoglie. Integrare non significa fare diventare l’altro come me, ma vedere che cosa abbiamo in comune per camminare insieme. Non a caso “Condividiamo il viaggio”, “Share the journey” si chiama la Campagna di Caritas Internationalis che il Papa ha lanciato il 27 settembre da piazza S. Pietro, mentre “Liberi di partire, liberi di restare” è il titolo della Campagna proposta dalla Conferenza episcopale italiana sui temi dello sviluppo e delle migrazioni perché cresca la consapevolezza delle storie di chi fugge, si sperimenti un percorso di accoglienza, tutela, promozione e integrazione dei migranti che arrivano tra noi, e non si dimentichi il diritto di ogni persona a vivere nella propria terra. Siamo consapevoli che si tratta di una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare non nella contrapposizione, immigrati sì/immigrati no, ma nel dialogo costante, in maniera dialettica, con un obiettivo chiaro: il bene comune.