Lettura di una grande figura della Bibbia, complessa ed eloquente. E capace di parlare a noi e alla nostra storia.
Chi era Mosè?
È difficile rispondere a questa domanda in maniera univoca. Mosè appartiene a quella schiera di personaggi biblici che hanno una storia scritta nel nome.
Era uno scampato dalle acque. Apparteneva alla generazione di quei bambini maschi, figli di ebrei, che nacquero sotto un decreto del Faraone che ne voleva la loro sistematica eliminazione. Inutile cercare le ragioni razionali di quel decreto. Perché, infatti, eliminare i figli maschi per evitare la crescita demografica degli ebrei? Non sarebbe stato più logico “contenere” le femmine? Ma soprattutto questa decisione sembra dettata da fobie e da processi alle intenzioni, piuttosto che da reali pericoli politici.
Comunque sia, Mosè nasce sotto una cattiva stella. Il suo destino è segnato. Egli appartiene al novero di quegli esseri umani che neppure riescono ad avere un nome e la cui vita è “mortificata”, prima ancora di poter venire a un suo pieno sviluppo. Ma come sappiamo, con uno stratagemma che viene dall’amore materno, (ma poi scopriamo che si tratta di elargizione di amore e provvidenza divina per mezzo dell’istinto materno), egli viene sottratto alle acque, salvato, per essere allevato con la migliore educazione proprio nella casa del Faraone. Dunque Mosè è uno scampato alle acque. Bene, è già sufficiente per definire un’identità umana. Mosè porta nel nome la vittoria dell’amore sul destino, della tenerezza materna, anche della figlia del Faraone, sulla cieca violenza della politica, sulla stupidità del Faraone o sulle ragioni di Stato. Ma non è tutto. La domanda va posta nuovamente.
Chi è Mosè?
È un ebreo o un egiziano? È un ebreo di nascita, scampato per un pelo dal diventare un “ebreo di nascita e morte precoce”. Ma è un egiziano di adozione: ne impara la lingua, i costumi e, presumibilmente, le buone maniere. Insomma, un’identità complessa, che porta con sé opportunità, ma anche criticità. Infatti, tra egiziani ed ebrei non correva buon sangue, anzi siamo in un momento in cui i primi programmano lo sfruttamento inumano e il contenimento demografico dei secondi. Dunque, Mosè è un “portatore sano” di un conflitto sistemico: tra oppressore e oppresso, tra sfruttatore e sfruttato, che ultimamente ha acquisito le caratteristiche della pulizia etnica. Tutto questo lo precede, ma anche lo accompagna. In altri tempi, egli sarebbe potuto essere una persona col doppio passaporto, con la doppia cittadinanza, e magari sarebbe potuto divenire un ottimo business man di import-export di prodotti artigianali di Israele in cambio del buon grano egiziano. Avrebbe potuto vivere una vita prospera. Ma le cose non vanno così a quel tempo. E, quindi, Mosè, adesso, deve farsi carico di decidere chi egli veramente sia, o voglia essere: un ebreo o un egiziano, nella piena coscienza che un’opzione escludeva l’altra. E Mosè sceglie. Ma come lo fa?
Non lo fa in seguito a una valutazione opportunistica e neppure ideale o religiosa. Non sceglie come fa Ruth la moabita, la quale dichiara la sua decisione di appartenere a Israele, mediante il vincolo che la unisce con la suocera, Naomi: “...Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio”. Bello, no? Niente di tutto questo! Mosè sceglie, ma sono sostanzialmente le circostanze a decidere per lui. Egli assiste a un litigio, anzi a una vessazione di un egiziano verso un ebreo, presumibilmente suo schiavo. E cosa fa? Uccide l’aggressore. Adesso non è più semplicemente uno scampato. Adesso non è neppure più un egiziano salvo che i suoi fratelli ebrei non sembrano disposti a riconoscergli la “cittadinanza” di ebreo. Adesso, Mosè, che lo voglia o no, è anche un assassino. Quel conflitto che lo precedeva, quel conflitto legato alle fobie dei potenti, ai decreti del faraone, e ad atti conseguenti di brutale sfruttamento, si trasferisce dentro di lui, lo abita, lo pervade e lacera la sua fragile identità. L’identità così appare qui formata, determinata, dalle circostanze che sovrastano la vita di una persona.
Chiediamoci: cosa saresti tu, se, semplicemente, avessi una diversa pigmentazione della pelle? Chi sarei io se fossi nato in Siria? O se vivessi a Gaza? Questa “nuova” identità non è accolta da Mosè. Egli non sente la vocazione dell’eroe, né quella ad accettare le conseguenze del suo atto e perciò cosa fa? Fugge. Va lontano dal suo Paese. Scappa sia dagli ebrei che dagli egiziani. Mentre lo troviamo nel Paese di Madian seduto presso un pozzo (Esodo 2,15), la domanda si pone una volta ancora.
Fuggiasco
Adesso è un fuggiasco, un apolide, un pavido, un uomo “scalzato” dal suo popolo, dalle sue origini, dal suo passato. Inutile cercare nel vissuto di Mosè un travaglio interiore alla ricerca di una nuova identità. Adesso Mosè è solo un fuggitivo. Non ha tempo né voglia di interessarsi a questioni che hanno già fin troppo condizionato la sua vita. Adesso vuole solo una vita tranquilla. Fugge lontano, prende moglie e cerca un lavoro salariato. Così lo troviamo a pascolare il gregge del suocero. Nessuna ambizione. Nessuna ricerca di successo e/o di farsi un nome. Nessuna idealità. Vivere e basta. Non può essere sufficiente? Ma proprio mentre porta il gregge al pascolo (si può forse pensare a un’attività più “decontestualizzata” che vivere da soli in montagna al seguito di un gregge?) egli viene ritrovato. Questa volta Dio si presenta non con le fattezze di un seno materno che lo allatta a pagamento, dopo averlo messo in salvo con amorevole astuzia. Adesso Dio “irrompe” nella sua fragile quiete. E non è un incontro semplice, né un incontro che gli semplifica la vita. Un arbusto che arde, ma non si consuma. Una visione che è anche un programma. Una passione che non si estingue, un compito che non ti lascia. “Che sarà mai?” Si chiede il pecoraio.
Ma a questo punto una voce gli dice, proprio mentre lui si avvicina al fuoco: “Mosè, Mosè! Togliti i calzari dai piedi”. Ora avvicinarsi a un fuoco, in campagna, mentre si è a piedi nudi, è altamente sconsigliabile. Potresti finire su un tizzone, potresti rimanere ustionato da quella prossimità. La presenza di Dio è così, al tempo stesso attrae, conforta, dà calore, ma è anche rischiosa, ustionante. Ed è infatti in quella scomoda postura che Mosè riceve la sua chiamata/missione. Adesso, anzi da adesso in poi, Mosè diviene colui che è incaricato di una “mission impossible”. La sua identità riceve una nuova, decisiva torsione, fondata sul compito che Dio gli affida. Nulla delle sue inclinazioni e della sua storia pregressa appaiono adatte: Mosè non sa parlare bene, è un fuggiasco, Mosè è un assassino, non ha cittadinanza e neppure gli ebrei si fidano troppo di lui. Mosè non è più scalzato dagli eventi, ma adesso è “scalzato” da Dio stesso.
I conflitti a lui esterni, divenuti poi conflitti interiori, adesso subiscono una possibilità di trasformazione nella sua stessa vita. Si presenta ora la possibilità che la sua vita sia “ricapitolata” in quel compito e che in essa egli trovi una nuova identità. Chi è Mosè? Adesso è colui che è incaricato di guidare il suo popolo verso la liberazione.
Certo Mosè avrebbe potuto fuggire di nuovo. Avrebbe potuto darsela a gambe da Dio, come fece dal Faraone. Ma non lo fa. Adesso accetta la sfida di una nuova identità, che è indissolubilmente legata alla sua chiamata. Da ora in poi, a definire l’identità di Mosè, non sarà più il suo gesto violento col quale ha ucciso un uomo, né il suo pavido sottrarsi alle responsabilità. Da ora in poi, la chiamata e la promessa di Dio di essere al suo fianco, saranno la ragione della sua vita. Ed egli dovrà scoprire che quel suo essere scampato alle acque, è ora divenuto compito che si estenderà a un popolo intero per mezzo suo. Ma non è finita. Se seguissimo Mosè nel racconto delle pagine successive (uscita dall’Egitto, ribellioni del popolo, manna e quaglie, Sinai, ecc.), potremmo nuovamente porci la domanda sulla sua identità, e trovare nuove risposte a integrazione di quella che troviamo in questo testo, comunque centrale.
Dio spesso viene nella nostra vita per offrirci consolazione e protezione, specie in momenti difficili. E noi vorremmo che fosse sempre così. Ma Egli viene anche a gettare scompiglio nei nostri agi, nelle nostre strutture mentali, nel nostro proposito di disertare la storia e i suoi conflitti. Dio viene come una passione interiore che arde senza consumarsi, come un fuoco di giustizia che brucia la paglia delle nostre vite, spesso capanne fatte di nulla. Dio viene e ci affida un compito e dentro quel compito ecco abbiamo ritrovato, ora che non ce ne davamo più alcuna pena, anche la nostra identità perduta...