Editoriale

Corriamo il rischio che questo editoriale vi giunga in uno scenario politico ben diverso rispetto a quello in cui lo scriviamo, ma crediamo ugualmente opportuno spendere due parole in merito al "contratto di governo" stipulato tra Lega e Movimento 5 Stelle. 

L'uso del termine "contratto" ci rimanda inevitabilmente a quell'idea di "Azienda Italia" che tanto vorremmo estranea al concetto di politica e di agorà in cui non smettiamo di credere. Ma che ci obbliga a misuraci ulteriormente su quanto sia profondamente mutato l'assetto sociale e politico del nuovo millennio e di quanto alcune categorie che abitano il nostro pensiero siano diventate aliene alla contemporaneità. L'aver adoperato la parola "contratto" per definire un programma politico ci obbliga a registrare ulteriormente che l'economia – e quale economia! – è ormai tanto potente da determinare le nostre vite, il nostro tempo, le nostre relazioni, le nostre costruzioni sociali e non da ultimo il nostro lessico.

Una visione della politica (non a caso il Presidente del Consiglio incaricato di era definito "avvocato degli italiani") che ha spodestato quella di un'idea complessiva del mondo, di un orizzonte a cui mirare, meglio se universale, che richiama alla Costituzione nel suo insieme e al novero di diritti e di valori cui tende.

Commenta Marco Revelli, in un recente articolo: "Nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una disseminazione irrelata di individualità", in cui si riscontra "la scomparsa dell'orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l'unica potenza sociale riconosciuta, l'unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile". 

Qui si radicano anche molti nostri dubbi, forti preoccupazioni per la modalità di gestione della cosa pubblica, per i temi contenuti nel contratto di governo, per le strategie proposte di controllo delle moltitudini di persone che abitano il nostro Paese. 

Controllo che peraltro rimanda a modalità violente e fasciste – modello "tolleranza zero" – piuttosto che a pacifiche convivenze, inclusioni, attivazioni di sistemi di gestione di inevitabili conflitti che non avrebbe alcun senso reprimere o cercare di sopire.

Costruzione di nuove carceri, inasprimento delle sanzioni anche per i minorenni; incremento delle forze di polizia e delle loro dotazioni, inclusi i taser, recentemente introdotti anche in Italia e definiti come armi non offensive nonostante i molti decessi legati al loro uso nei Paesi che normalmente li utilizzano. 

E ancora reddito di cittadinanza, ma solo per i cittadini, chiusura dei campi nomadi irregolari e decadenza della responsabilità genitoriale per i rom che non mandano i figli a scuola, come se sul tema specifico dell'inadempienza scolastica questi ultimi necessitassero una legislazione differente rispetto a quel numero sempre crescente di minori – italiani – che evadono l'abbligo scolastico e che alimentano le cifre della povertà educativa.

La difesa incondizionata della proprietà, senza alcun limite di proporzionalità tra aggressione e reazione, maggiore diffusione di armi da difesa, ma anche sgombero immediato degli alloggi che i proprietari rivendicano per sé, indipendentemente dalla morosità incolpevole dell'occupante.

E un bel giro di vite all'immigrazione, il cui asse pare spostarsi considerevolmente sul rendere sempre più difficile l'accesso e sulla parola rimpatri. Come se le persone possano essere titolari di diritti e dignità in base al colore della pelle o alle modalità di arrivo nella nostra terra. 

Un'Italia, quella descritta nel "contratto", in cui non ci ritroviamo, che non ci piace per niente. Una visione della politica che alimenta una cultura aziendalistica e xenofoba. E, perché nasconderlo, anche violenta. È questo che ci preoccupa.


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