Il settantesimo compleanno della nascita di Israele è macchiato di sangue. Mentre si esercita in una guerra contro l'Iran, continua a uccidere palestinesi.
Israele sembra voler celebrare i settant'anni dalla sua nascita facendo ciò che le riesce meglio: esercitarsi nell'arte della guerra stavolta contro l'Iran, mentre continua quella contro i palestinesi,
ferocemente aggrediti e uccisi mentre marciano verso la terra che fu loro, esponendo i corpi alle pallottole come estrema manifestazione della spoliazione cui sono stati sottoposti in questi decenni.
Dopo la promettente iniziativa di pace fra le due Coree, Israele torna a essere una minaccia alla pace mondiale praticando attacchi preventivi contro Stati confinanti fuori da ogni regola del diritto internazionale.
La sindrome d'assedio
Israele è ossessionata da una sindrome d'assedio, alibi per alimentare il suo ineguagliabile apparato militare, spionistico e mediatico, che ne fa la nazione più militarizzata al mondo. Una delle poche a poter mettere sul mercato sistemi di sorveglianza, dissuasione e repressione "testate sul campo", cioè sulla pelle dei palestinesi. Un apparato minutamente descritto nel libro di Jeff Halper, antropologo e fondatore del Comitato contro le demolizioni di case dei palestinesi come punizione collettiva (ICAHD), pubblicato in Italia col titolo: "La guerra contro il popolo"(ed. Epokè).
L'esistenza di un nemico e, se occorre, l'invenzione di esso è fondamento dello Stato ebraico fin dalla sua origine. Israele sapeva fin dai primi insediamenti sionisti del secolo scorso che colonizzare significava far guerra ai nativi, possibilmente assoggettarli e successivamente contrastarne con efficacia la prevedibile resistenza alla spoliazione di beni e diritti. Questo presupposto fondativo ha favorito il progressivo sviluppo di un'industria della "pacificazione" ipertecnologica quanto cinica. L'eccellenza israeliana in tale campo con un buon 20% delle mitiche start up dedicate allo sviluppo delle tecnologie necessarie, serve non solo a compensare economicamente uno Stato che destina l'8% del proprio PIL alle spese militari, ma anche ad affermare una propria egemonia creando alleanze con diversi Paesi del mondo alla prese con popoli "irrequieti", quindi prevalentemente con governi dispotici, mentre accredita la "narrazione" d'Israele, unica democrazia del Medio Oriente, assediata da barbari assassini. Secondo Halper sembrerebbe delinearsi una "palestinizzazione globale" in aree del mondo soggette a forti tensioni sociali e a dure repressioni da parte dei governi più o meno democratici. Quindi, la guerra d'Israele nei confronti dei palestinesi è diventata un modello, un laboratorio, un prodotto d'esportazione.
Contraddizioni
In concomitanza con questa tragedia, che diventa business, anche Israele è soggetto a mutazioni interne che ne fanno sempre di più una dichiarata "repubblica ebraica", dove cresce l'influenza del Gran Rabbinato che, favorito dal peso determinante dei partiti religiosi nella maggioranza di governo, si vede assegnato il ruolo di arbitro (Guida suprema?...) in caso di controversie fra legge dello Stato e legge religiosa (Torah). Naturalmente, questa tendenza allarma il pur vivace spirito laico della parte di popolazione che, vivendo nella grande conurbazione costiera di Haifa/Tel Aviv, s'illude di poter vivere all'occidentale e di cantare insieme alla giovane Netta, che si è aggiudicata il premio al Festival europeo della canzone, quando a pochi chilometri all'interno si alzano i muri di separazione da un popolo altrettanto numeroso e titolare di diritti che gli vengono negati, sia che abbia cittadinanza israeliana, sia che viva recluso in Cisgiordania o a Gaza, oppure sia ospite "provvisorio" dei campi profughi.
E questa è sola una delle contraddizioni che minano la coesione sociale del popolo israeliano variegato e conflittuale fra laici, ortodossi, coloni, immigrati russi, immigrati africani, immigrati asiatici soprattutto filippini cristiani. Vi sono fasce di popolazione assai impoverite e lo stesso servizio militare pesante e obbligatorio, di 3 anni per i ragazzi e 2 anni per le ragazze, vede esentati gli ortodossi e ovviamente i palestinesi residenti in Israele ed è motivo di crescente malcontento. Senza trascurare gli effetti perversi e alienanti della rimozione "freudiana" della "Naqba", la catastrofe palestinese del 1948, il sentimento di vergogna nei confronti della pulizia etnica provoca disagio e voglia di rimozione, un "negazionismo" praticato con la costruzione di un'altra narrazione ("hasbara" in ebraico) cui Israele dedica le risorse e le strutture paragonabili a quelle di un esercito che controlla, censura e confeziona una diversa versione dei fatti: furono i palestinesi a scegliere di andarsene e non furono cacciati, perché pensavano di tornare dietro alle schiere vincitrici degli eserciti arabi. Serve la menzogna per sopportare il peso della colpa per l'ingiustizia arrecata. Senza contare che non è facile ammettere che il progetto sionista è fallito e che oggi metà degli ebrei al mondo vivono fuori d'Israele e non hanno alcuna intenzione di andarci a vivere.
Apartheid
Al di là della retorica della formula "due popoli, due Stati", ormai impraticabile a motivo dell'inestricabile intreccio fra insediamenti colonici e villaggi palestinesi oltre muro, Israele va sviluppando una politica pragmatica e legislativa che la spinge verso un Stato di "apartheid": restringimento della popolazione palestinese in spazi circoscritti sempre più ridotti e senza un'economia significativa, salvo quella di una stentata sopravvivenza.
Ma la sostanziale equivalenza numerica fra i due popoli rende molto difficile la chiusura del cerchio di ferro intorno al collo palestinese. Un popolo che ha dalla sua parte la giovane età, l'assenza di una prospettiva di futuro accettabile, la consapevolezza di aver perso i diritti e di non trovare avvocati che li invochino per loro, la tenacia di attaccamento alla propria terra con radici profonde quanto quelle dei loro ulivi.
Se sradicati, rispuntano sempre con nuovi germogli.
La sanguinosa "Marcia del ritorno" indetta a Gaza è anche protesta contro formazioni politiche come Hamas e Fatah, ritenute élite privilegiate e inerti che rinviano la stagione dei diritti, mentre incassano i sussidi con cui l'Occidente crede di lavarsi la coscienza.
Il drammatico empasse che inchioda Israele al permanente stato di guerra è ben riassunto da una fonte autorevole del mondo politico israeliano come Avraham Burg, già presidente della Knesset e oggi dissidente coraggioso ed esplicito contro la politica di Netanyahu/Trump: "Oggi assistiamo alla combinazione tra la divisione interna israeliana e la radicalizzazione dell'attitudine verso i palestinesi. Questo ha fatto venir meno qualsiasi spinta verso una soluzione. Abbiamo una leadership palestinese debole, una leadership israeliana priva di interesse verso il dialogo, una diversità d'interessi da parte dei Paesi vicini, un presidente pazzo alla Casa Bianca e un'Europa invisibile. Non ci sono più attori, come successo con Oslo, che sostengano l'apertura di un dialogo".
Ed è proprio sul ruolo dell'Europa (e di quel che rimane dell'ONU) che ci dobbiamo interrogare per farne ragione d'impegno civile in difesa di un diritto internazionale umanitario troppo a lungo e impunemente violato. Le ferite mortali che gli abbiamo inferto preparano uno scenario di tutti contro tutti, che prelude a conflitti irriducibili, condotti senza regole. Se non fermiamo il delirio d'onnipotenza d'Israele ne saremo noi stessi travolti.
È tempo di far sentire il peso della sanzione, che sospenda ogni collaborazione in campo militare ed economico, includendo gli ambiti simbolici dello sport e della cultura, fino a quando il diritto non sarà restaurato e rispettato. Si è fatto con il Sudafrica dell'apartheid, lo si faccia con chi quel sistema sta progressivamente strutturando.