Il silenzio sull'Egitto è assordante. È un Paese intoccabile. Perché? Quali interessi e quali investimenti?
Nei giorni in cui questo articolo è stato scritto, i magistrati italiani, che indagano sull'atroce fine di Giulio Regeni, erano al Cairo per esaminare le registrazioni delle telecamere installate sulla linea 2 della metropolitana,
quelle che contengono le ultime immagini del ricercatore italiano, filmato nei pressi della stazione di Dokki il 26 gennaio del 2016. Il lavoro degli investigatori è prezioso e meritorio. Ma tutti noi abbiamo capito a sufficienza della vicenda per sapere che cos'è più o meno successo: Regeni è stato sequestrato da uomini in qualche modo legati ai Servizi Segreti egiziani che l'hanno torturato e, per sbaglio o apposta, ucciso. Allo stesso modo abbiamo già capito che cosa succederà: tenendo a mente quanto contano gli apparati della sicurezza nell'Egitto dell'ex generale ora Presidente Al Sisi, non sapremo mai la vera verità. Forse nemmeno lo stesso Al Sisi, se pure volesse, avrebbe abbastanza potere per rivelarla. Al più, ci faranno la grazia di un capro espiatorio, giusto per chiudere la vicenda. Il tutto nel silenzio assordante dell'Europa intera.
Il cosiddetto "caso Regeni", al di là del dolore dei familiari, spiega a perfezione che l'Egitto, oggi, è un Paese intoccabile. Dall'Italia, in primo luogo. Siamo troppo deboli per superare, in nome della verità e dei valori, il richiamo della convenienza. Almeno 130 aziende italiane sono attive in Egitto e si contendono appalti per 2,5 miliardi. E poi c'è l'Eni, che sta investendo 7 miliardi nello sviluppo del mega giacimento off shore di gas naturale di Zohr, il più importante del Mediterraneo, così ricco da poter soddisfare la domanda interna egiziana per decenni e nello stesso tempo consentire al Paese di ridiventare esportatore di energia. E siamo deboli anche per sfuggire alle trappole seminate dalla politica internazionale. Nella Libia atomizzata dalla guerra del 2011, la Cirenaica controllata dal generale Haftar è diventata un elemento importante nel risiko mediterraneo, sia per quanto riguarda i flussi migratori dall'Africa verso l'Europa sia nella corsa alla risorse energetiche libiche intrapresa da Italia, Francia e Regno Unito. Ma Haftar è una "creatura" di Al Sisi il quale, così, custodisce le chiavi anche di un bel pezzo di Libia.
Il giro di giostra tra il 2011 e il 2013, ovvero dalla Primavera di piazza Tahrir all'arrivo al potere dei fratelli musulmani fino al colpo di stato dei militari di Al Sisi, è stato possibile anche perché nessuno ha voluto metter mano in un Paese così importante per gli equilibri del Nord Africa e del Medio Oriente. Pensiamo solo alla repressione seguita alla presa del potere dei generali. Secondo Amnesty International, nei primi sette mesi le repressioni di Al Sisi hanno fatto almeno 1.400 morti, 700 dei quali, secondo Human Rights Watch, in un solo giorno, il 14 agosto del 2013, e in una sola città, il Cairo, quando l'esercito fu mandato a sgombrare due campi in cui si raccoglievano i sostenitori dell'esautorato presidente Morsi. Nulla da invidiare all'inizio dell'atroce guerra civile della Siria, ma qui nessuno è intervenuto, nessun Paese ha finanziato "ribelli" o "terroristi", nessuno si è preoccupato di esportare la democrazia intorno alle piramidi.
D'altra parte, basta guardarsi intorno e fare due conti. L'Egitto nel 1979 è stato il primo Paese arabo a riconoscere Israele e a firmare con lo Stato ebraico un trattato di pace. La collaborazione tra i due Paesi nel settore della sicurezza è cruciale in almeno due settori. A Gaza, dove l'Egitto controlla il valico di Rafah e così facendo aiuta Israele nel soffocamento della Striscia. Il valico è rimasto aperto per soli 72 giorni in quattro anni e le guardie egiziane hanno stroncato anche la rete di tunnel da cui passavano rifornimenti per la popolazione palestinese e armi per le milizie collegate ad Hamas. E nel Sinai, dove l'Egitto lotta da tempo contro il terrorismo islamista che, saldandosi con lo spirito ribelle al potere centrale delle tribù beduine, conduce da tempo una sanguinosa guerriglia. Almeno 5 mila morti dal 2011 e l'interesse strategico comune ha spinto Israele persino a condurre incursioni aeree contro le postazioni islamiste nel Sinai, con il beneplacito del Governo egiziano.
L'Arabia Saudita, che delle formazioni del terrorismo sunnita è il primo sostenitore e finanziatore, ha salutato con favore la cacciata dei Fratelli Musulmani da parte di Al Sisi ed è prontamente corsa al soccorso del vincitore, con prestiti e finanziamenti. Nel 2016 re Salman ha compiuto una visita di cinque giorni in Egitto, durante la quale ha firmato un accordo di collaborazione economica del valore di 25 miliardi di dollari. E poche settimane fa il re-non-ancora-re Muhammed bin Salman ha annunciato un investimento saudita da 10 miliardi di dollari nel progetto egiziano di fondazione di una nuova città nella parte Sud della penisola del Sinai.
Equilibri
L'Egitto, insomma, si è accortamente coperto le spalle rispetto all'asse Usa-Arabia Saudita-Israele che il presidente americano Trump sta cercando in ogni modo di rinsaldare. Nello stesso tempo, e proprio approfittando della libertà d'azione offerta da tale posizione strategica, il generale-Presidente ha ricostruito i rapporti con la Russia, ridotti al minimo fin da quando, nel lontano 1972, il suo predecessore Anwar al-Sadat cacciò dal Paese tutti i consiglieri sovietici.
L'Egitto dei colonnelli, entrato in rotta di collisione con l'islamismo radicale attraverso lo scontro con i Fratelli Musulmani nelle città e con i terroristi dell'Isis nel Sinai, cerca nuovi equilibri con la corposa minoranza copta (tra il 9 e il 12% della popolazione), la più consistente presenza cristiana in Nord Africa e Medio Oriente. È una situazione interessante perché, sotto certi punti di vista, replica quella della Siria. Là i cristiani, minacciati da una rivolta che hanno da subito sentito infiltrata dall'islamismo, ovvero da un pericolo mortale per le loro comunità, hanno appoggiato senza troppo esitare l'azione del presidente Assad. Qui, in Egitto, i copti, minacciati di annientamento dallo stesso islamismo (sono state decine, negli ultimi anni, le stragi di cristiani, con centinaia di vittime), non hanno soverchi dubbi nel sostenere Al Sisi. Piaccia o no, gira così.
Il Presidente, con le cautele imposte dall'avere la moschea di Al Azhar, ovvero il Vaticano del sunnismo, sotto casa, cerca di ricambiare. Poche settimane fa, la speciale commissione costituita presso il Governo per vagliare la situazione di oltre 3 mila edifici cristiani di culto (con relativi edifici di servizio) ha dato il via libera a 53 chiese costruite in modo più o meno regolare prima dell'approvazione della legge apposita, avvenuta nell'agosto del 2016. È un passaggio importante nella continua a delicata ricerca di equilibrio all'interno di un Paese che ha vissuto e vive una strisciante guerra civile a bassa intensità.
Ciò che più conta, infatti, non è che ci siano 53 chiese in più o in meno. È la sfida che decisioni come questa portano all'ala meno tollerante dell'islam egiziano. Fino al 2016, infatti, la costruzione delle chiese cristiane era regolata da un decreto ottomano del 1856, integrato in modo decisivo dalle famose Dieci Regole aggiunte dal ministero del'Interno nel 1934. Le Regole erano studiate per garantire la preminenza al già maggioritario islam e vietavano tra l'altro di costruire chiese vicino alle scuole, agli edifici pubblici, alle ferrovie e ad altre infrastrutture strategiche. Di fatto, bastava che un'amministrazione locale le applicasse con rigidità per bloccare qualunque iniziativa delle comunità cristiane. Gli edifici, che ora vengono esaminati e regolarizzati, sono stati spesso "tirati su" senza troppo badare ai regolamenti ma, soprattutto, sono stati spesso la causa dell'ira dei musulmani e non di rado la scusa per veri pogrom anti-cristiani. Il lavoro della Commissione per gli edifici di culto, insomma, serve ad Al Sisi anche per tastare il polso al Paese, per capire fin dove può spingersi. Come avviene anche nel resto del Medio Oriente, alla fine i cristiani sono il termometro più sensibile dei problemi della società.
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Primavere Arabe
·Tunisia, Dicembre 2010, caduta di Ben Ali, 2018 elezioni con affluenza bassissima.
·Egitto, Febbraio 2011, caduta di Mubarak, 2012 elezioni con vittoria Fratelli Musulmani di Morsi, 2013 colpo di stato di al Sisi.
·Bahrein, 2011, proteste soffocate dall'intervento di Arabia Saudita.
·Siria, Marzo 2011, manifestazioni pacifiche presto sfociate in scontri armati, molti combattenti dall'estero, nascita infine dell'ISIS nel 2014.
·Yemen, 2015, coinvolgimento diretto dell'Arabia Saudita.
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Guerre USA/NATO
·Afghanistan, Ottobre 2001, USA e UK, dal dicembre entrano ISAF missione NATO, autorizzata dall'ONU.
· Iraq, Marzo 2003, Alleanza di 17 Stati a guida USA, contro il parere dell'ONU, prove rivelatesi false, USA e UK riconosciuti come occupanti dall'ONU.
· Libia, Marzo 2011, Francia/Usa e coalizione a guida NATO, prove rivelatesi false.