Qualifica Autore: Giornalista de Il Manifesto e caporedattrice Nena News

La guerra dimenticata dello Yemen e i diversi tasselli che la compongono: bombe, scontri terrestri, armi, malnutrizione, sfollamento, disoccupazione, colera.

 

La storia del porto di Hodeidah, quarta città per grandezza dello Yemen, lungo la sua costa occidentale, è vecchia di almeno duecento anni.

Costruito sotto l'impero ottomano, era il luogo di arrivo, partenza e distribuzione di caffè, cotone, datteri tra il Mar Arabico e il Mediterraneo. Negli anni Venti del secolo scorso la sua importanza aveva richiesto lo sviluppo di nuove infrastrutture: nasceva la linea ferroviaria Sana'a-Hodeidah. Qui arrivavano merci dal Golfo, l'Italia, la Germania, la Gran Bretagna; da qui partivano i prodotti tradizionali della città, sandali e vestiti in cotone grezzo, ma soprattutto il famoso caffè, considerato il più pregiato della Regione.

Tempesta decisiva 

Oggi della grandezza di un tempo non resta quasi nulla. Da anni Hodeidah è sotto assedio, il porto quasi deserto. L'Arabia Saudita, che nel marzo 2015 ha lanciato "Tempesta decisiva", una durissima campagna militare contro il movimento di Ansar Allah (espressione politica della minoranza Houthi, sciiti zayditi da secoli arroccati a nord), ha imposto un brutale blocco aereo e navale. Non arriva più nulla, se non sporadici cargo di aiuti umanitari che ottengono il permesso di attracco solo dopo estenuanti negoziati con Riyadh. Ma non sono scomparse solo le grandi navi commerciali, stanno scomparendo anche le piccole imbarcazioni dei pescatori yemeniti.

Il porto è paralizzato, i piccoli pescherecci dipinti con vernice bianca e blu sono bloccati dalla paura: chiunque si allontani dalla costa, alla ricerca di pesce che lungo il porto è ormai introvabile, diventa target dei jet sauditi. È successo spesso, missili sulle barchette e arresti: l'accusa di Riyadh, i pescatori contrabbandano armi per gli Houthi. Secondo l'Unione yemenita dei pescatori della costa occidentale, la marina saudita ha arrestato almeno 80 pescatori nelle acque yemenite e ha colpito con i raid oltre 20 imbarcazioni.

Lo stesso succede ad al-Mocha, città costiera nel sud-ovest del Paese. Così viene ucciso uno degli ultimi scampoli di economia in un Paese disastrato: prima del conflitto erano 150mila i pescatori in attività, oggi il 70% di loro vive in estrema povertà. La coalizione a guida saudita ha portato alla scomparsa di undici centri di pesca sul Mar Rosso solo nel 2017. 

La guerra dimenticata dello Yemen è fatta di tanti tasselli: bombe, scontri terrestri, malnutrizione, sfollamento, disoccupazione, colera. Gli ultimi dati raccolti dalle Nazioni Unite parlano di 50mila morti dal marzo 2015. Innanzitutto, per i raid aerei sauditi (che colpiscono con precisione chirurgica mercati, case, ospedali, scuole, siti archeologici) e per gli scontri terrestri tra le forze governative alleate di Riyadh e i ribelli Houthi. Le altre sono vittime "collaterali": uccise dal diffondersi incontrollabile di malattie, colera o febbre dengue, o dalla fame. L'epidemia di colera ha già ucciso duemila persone e continua a contagiarne altre, superando ormai di molto il milione di casi: secondo The Lancet Global Health, oggi sono a rischio quasi 14 milioni di persone, la metà della popolazione totale, per un riacutizzarsi dei contagi a seguito della stagione delle piogge che ha contaminato ulteriormente le sorgenti d'acqua. Per sopravvivere non serve molto: serve idratazione, acqua pulita. Ma in Yemen manca tutto, anche il minimo necessario alla sopravvivenza. Manca il lavoro, mancano le infrastrutture, distrutte, e mancano i beni essenziali: lo Yemen, il Paese più povero del Golfo, già prima del conflitto importava il 90% del cibo che consumava.

La guerra 

E la guerra non accenna a fermarsi. Giovedì 17 maggio Amnesty International ha lanciato un nuovo allarme: in questi giorni decine di migliaia di civili sono in fuga da Hodeidah, a causa dell'intensificarsi degli scontri, andando ad aggiungersi ai 100mila sfollati dalle Regioni occidentali del Paese denunciati dall'Onu nel corso dell'ultimo mese e ai tre milioni totali da tre anni a questa parte. Hodeidah resta comunità strategica, di vitale importanza: il principale porto della costa ovest è dal 2014 in mano agli Houthi e l'Arabia Saudita intende assumerne il controllo. 

Un simbolo del conflitto e delle sue radici: la sollevazione Houthi del settembre 2014, che ha portato alla presa della capitale Sana'a e poi del centro e del sud del Paese, affonda nella strutturale discriminazione economica e politica da parte del governo sunnita. Era questa la richiesta della minoranza: maggiore inclusione. La risposta è stata la guerra e il rifiuto totale del dialogo: per Riyadh lo Yemen deve restare il proprio cortile di casa, sbocco sul Mar Rosso e sul Canale di Suez, raggiungibile dallo strategico stretto di Bab al-Mandab da cui passa l'80% delle petroliere partite dal ricco Golfo. 

Da Hodeidah i civili sono in fuga verso sud, verso Aden, la capitale provvisoria del governo Hadi. A parlare sono le storie raccolte da Amnesty: famiglie costrette a vendere tutto quel che avevano per pagarsi la fuga, tre giorni di viaggio (invece delle normali sei ore) a causa di checkpoint, mine e raid aerei. "Siamo fuggiti perché i bombardamenti erano tutti intorno a noi – racconta all'associazione internazionale Hassan, 26 anni – Ogni giorno la gente muore, ogni giorno vedi corpi lacerati intorno a te, fatti a pezzi. Potevamo restare lì?".

Vita quotidiana 

Questa è una domanda che ogni giorno ogni singolo yemenita si pone. Il lavoro è evaporato, gli aiuti non arrivano sebbene l'80% della popolazione, 22 milioni di persone, ne abbia necessità: l'acqua potabile è bene prezioso quanto raro, gli ospedali rimasti in piedi mancano dell'equipaggiamento di base. A ciò si aggiunge il totale stravolgimento della vita quotidiana, un dramma vissuto soprattutto dalle generazioni più giovani: la scuola per molti diventa un miraggio, o perché in molte comunità non c'è più (distrutta dalle bombe) o perché la famiglia non può più permettersi di pagare per gli studi dei figli. Si calcola che in tutto il Paese più di due milioni di bambini non vada più a scuola e che oltre 1.500 scuole siano state distrutte o gravemente danneggiate dal conflitto, altre 21 utilizzate da gruppi armati come base. Mancano gli insegnanti, o perché sfollati o perché uccisi. E mancano i libri di testo: difficile trovare librerie ancora aperte. 

Eppure, nonostante la devastazione di un intero Paese e del suo popolo, la guerra in Yemen è una guerra invisibile. I giornali ne parlano poco e male, le società civili non ne sembrano troppo scandalizzate. Poche voci, organizzazioni per i diritti umani e movimenti di base, tentano di bucare il muro di gomma. Lo ha fatto un mese fa Rete Disarmo che, insieme ad altre associazioni, ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma contro il governo italiano. L'accusa: complicità in crimini di guerra. Perché tra le armi usate per massacrare civili ci sono bombe prodotte in Italia, in Sardegna in particolare, nella fabbrica della tedesca Rwm Italia. Una denuncia penale, ha spiegato il 18 aprile la legale Francesca Cancellaro, "molto ben documentata" e rivolta contro i vertici di Rwm e contro l'Uama, l'Unità per le autorizzazioni dei materiali d'armamento, ovvero la commissione governativa che attribuisce alle aziende produttrici le licenze di esportare armi, sulla base della legge 185, che vieta la vendita di armi ed equipaggiamento militare a Paesi impegnati in conflitti e responsabili di violazioni dei diritti umani.

Non siamo soli: nel maggio 2017 il Presidente statunitense Trump ha firmato il memorandum d'intesa con Riyadh per la vendita (nel corso di un decennio) di 100 miliardi di dollari in armi, mentre la Gran Bretagna si posiziona seconda con commesse da 6,2 miliardi dal marzo 2015. Tutti colpevoli, tutti auto-assolti. Eppure la guerra prosegue e mangia vite: l'allarme peggiore è quello di Save The Children, secondo cui 50mila bambini sarebbero morti nel 2017 di malnutrizione, malattie e bombe, una media di 130 al giorno. Se confermati, i dati internazionali che riportano ancora un bilancio di 50mila morti dal 2015 è drammaticamente sottostimato.


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