Medioriente, miscela esplosiva petrolio-nucleare.

 

Il Medioriente porta impressa nel suo stesso nome e nella sua carta politica l'impronta coloniale. È la Gran Bretagna dell'epoca imperiale, nella sua visione anglocentrica del mondo, a chiamare Middle East l'Asia Occidentale.

È la Gran Bretagna, insieme ad altre potenze coloniali europee, a ridisegnare la carta del Medioriente, fissando unilateralmente i confini tra gli Stati della Regione, in particolare Arabia Saudita, Kuwait e Iraq, allora suoi "protettorati". 

La carta del Medioriente viene ridisegnata agli inizi del Novecento dalle potenze coloniali sulla base dei loro interessi politici ed economici, sempre più incentrati sullo sfruttamento delle risorse petrolifere della Regione da poco scoperte. La prima "concessione" petrolifera viene accordata dallo scià di Persia al diplomatico britannico William d'Arcy nel 1901. In seguito, anche grandi compagnie statunitensi estendono le loro attività alla regione mediorientale. Alla fine degli anni Trenta, tutte le zone petrolifere sulle rive del Golfo Persico sono sotto il controllo delle "Sette Sorelle". 

Successivamente, man mano che le grandi compagnie perdono il controllo diretto dei giacimenti mediorientali, in seguito alle nazionalizzazioni e alla nascita dell'Opec, gli Stati Uniti e le maggiori potenze europee organizzano colpi di stato, fomentano conflitti e conducono guerre, facendo leva sui loro principali alleati nella Regione: le monarchie del Golfo e Israele. I colpi di stato della Cia nel 1947 in Siria e nel 1953 in Iran (dove vengono rovesciati governi democraticamente eletti), la prima guerra contro l'Iraq nel 1991 e il successivo embargo, l'occupazione dell'Iraq nel 2003 e la successiva guerra all'interno del Paese, la crescente pressione contro l'Iran, la guerra coperta condotta in Siria dal 2011 hanno alla base fondamentalmente la stessa ragione: il fatto che in Medioriente si concentra, oggi, quasi la metà delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale, la cui importanza cresce man mano che si esauriscono le riserve di altre regioni. Significativo è che le potenze oggi militarmente più impegnate in Medioriente siano Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, le stesse che un secolo fa si spartirono il Medioriente con gli accordi di Sykes-Picot del 1916.

Per queste potenze e per le monarchie del Golfo, la Siria è di primaria importanza strategica quale hub di corridoi energetici nella crescente "guerra dei gasdotti". Damasco, però, nel 2009, rifiuta il piano presentato dal Qatar per la costruzione di un gasdotto che, attraversando la Siria, porterebbe il gas del Golfo in Turchia e da qui in Europa. Nel 2011 Damasco, invece, stipula un accordo con Iran e Iraq per un gasdotto che colleghi il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo e all'Europa. In quello stesso anno Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo iniziano, di concerto con Turchia, Giordania e Israele, le operazioni coperte per demolire lo Stato siriano come già fatto con quello libico.

L'Arabia Saudita, il maggiore produttore ed esportatore mondiale di petrolio, finanzia con miliardi di dollari le operazioni coperte attraverso cui la Cia e altri servizi segreti reclutano e armano la forza d'urto che ha il compito di scardinare dall'interno lo Stato siriano. Una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) e mercenari provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri Paesi. In tale quadro si forma l'Isis, reclutando soprattutto militanti salafiti sunniti. Un documento ufficiale dell'Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012 (desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa di Judicial Watch) sottolinea che c'è "la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l'opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell'espansione sciita (Iraq e Iran)". Nella "guerra dei gasdotti", condotta con strumenti non solo politico-economici ma militari, è coinvolta anche la Palestina. Nelle acque territoriali palestinesi, di fronte a Gaza, c'è un grosso giacimento di gas naturale, stimato in 30 miliardi di metri cubi. Altri giacimenti di gas e petrolio si trovano sulla terraferma a Gaza e in Cisgiordania. L'accesso a tali giacimenti viene però bloccato da Israele, impedendo ai palestinesi di sfruttare la ricchezza naturale di cui dispongono. 

Corsa alle armi nucleari

La storia di come Israele riesce a dotarsi di un grosso arsenale nucleare, senza mai ammetterne ufficialmente l'esistenza, si svolge nell'oscuro mondo sotterraneo degli affari nucleari. Il programma prende avvio nell'anno stesso della nascita di Israele: nel 1948, su incarico del ministero della Difesa, un gruppo di scienziati effettua prospezioni nel deserto del Negev trovando un giacimento di uranio. A questo punto Israele ha bisogno di un reattore. Per averlo, si rivolge segretamente alla Francia. Il governo francese invia propri tecnici a costruire nel massimo segreto, in un bunker sotterraneo a Dimona, nel deserto del Negev, un reattore nucleare di 24 megawatt di potenza. Dopo aver cercato di camuffare la vera natura dell'impianto, nel 1960 Israele ammette l'esistenza del reattore, garantendo che esso verrà usato a scopi esclusivamente pacifici. 

Il governo israeliano accetta che il reattore sia sottoposto a ispezioni a condizione che esse siano effettuate dagli Stati Uniti. Gli ispettori inviati da Washington sono, però, così "sprovveduti" da non accorgersi che i locali che essi visitano sono una messinscena, con false strumentazioni che mimano processi inesistenti del nucleare civile, e che sotto il pavimento c'è un enorme bunker a otto piani dove si costruiscono le armi nucleari. 

Le prove che Israele produce armi nucleari vengono portate oltre trent'anni fa da Mordechai Vanunu, un tecnico  dell'impianto di Dimona: dopo essere state vagliate dai maggiori esperti di armi nucleari, sono pubblicate dal giornale The Sunday Times il 5 ottobre 1986. Vanunu, rapito a Roma dal Mossad e trasportato in Israele, viene condannato a 18 anni di carcere duro e, rilasciato nel 2004, sottoposto a gravi restrizioni. Israele – l'unica potenza nucleare in Medioriente, non sottoposta ad alcun controllo internazionale poiché non aderisce al Trattato di non-proliferazione – possiede oggi (pur senza ammetterlo) un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari, tra cui mini-nukes e bombe neutroniche di nuova generazione, e produce plutonio e trizio in quantità tale da costruirne altre centinaia. Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici, come il Jericho 3, e su cacciabombardieri F-15 e F-16 forniti dagli Usa, cui si aggiungono ora gli F-35. La Germania ha fornito a Israele sei sottomarini Dolphin, modificati così da poter lanciare missili da crociera a testata nucleare, e ha approvato la fornitura di altri tre. Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato. Secondo il piano testato nell'esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall'Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l'Iran. 

L'Iran, che ha aderito al Trattato di non-proliferazione cinquant'anni fa, non ha armi nucleari e si impegna a non produrle, fornendo ulteriori garanzie in base all'accordo stipulato nel 2015 con i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu più la Germania. Ora, però, gli Stati Uniti escono dall'accordo, definito da Israele "la resa dell'Occidente all'asse del male guidato dall'Iran", e impongono all'Iran ulteriori pesanti sanzioni. Le conseguenze sono imprevedibili. Oltre all'Iran, che come decine di altri Paesi ha la capacità di costruire armi nucleari, c'è l'Arabia Saudita, che probabilmente può già disporre di armi nucleari, ottenendole dal Pakistan di cui finanzia il 60% del programma nucleare militare. Una situazione esplosiva che può innescare una reazione a catena: quella in corso in Medioriente, come conferma l'intervento militare della Russia a sostegno della Siria, è parte della "guerra mondiale a pezzi". La folle corsa, che già oggi sta mietendo milioni di vittime, ci sta portando alla catastrofe. Va fermata finché siamo in tempo. 

 

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Manlio Dinucci è giornalista e geografo. È stato direttore esecutivo per l'Italia dell'International Physicians for the Prevention of Nuclear War. Collabora con Il Manifesto. Autore di numerosi saggi, è tra i fondatori del Comitato No Guerra No Nato.

 


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