Qualifica Autore: Amnesty International

L’Iraq e la difficile situazione delle donne. Un dramma che si è ampliato da quando Mosul è stata liberata. Da dove ripartire?

 

Dopo la liberazione di Mosul da tre anni di occupazione da parte dello Stato Islamico, è arrivato il momento della vendetta, da parte delle autorità giudiziarie irachene e di milizie locali promotrici di una “giustizia fai da te”.

Sono almeno 40 le donne europee condannate a morte perché spose di jihadisti e in attesa di esecuzione. Nei processi non si va per il sottile: l’attenuante del raggiro, del plagio, dell’ignoranza non contano. Viene dato loro, di solito, un limite di 10 minuti per spiegare che esse per prime sono vittime. Non commuovono quasi mai. Djamila Botoutao, una francese di 29 anni, ha dichiarato di fronte al giudice: “Credevo di aver sposato un rapper. Solo quando siamo andati in vacanza per una settimana ho scoperto che mio marito era un jihadista. Sono una vittima. Mio marito mi picchiava e mi teneva chiusa a chiave quando dicevo che non volevo seguirlo in Iraq”. Si stima che 40.000 persone siano partite dall’Europa per unirsi al cosiddetto califfato dello Stato Islamico: di queste, quasi 2000 dalla Francia.

Le donne “sospette” 

La maggior parte delle donne straniere in carcere sono vedove con figli a carico i cui padri, presunti o reali terroristi, sono morti in battaglia. Ma in ogni caso si tratta di una piccola parte del totale. Molte di più sono le donne irachene trattenute in campi profughi che somigliano in tutto e per tutto a delle prigioni a cielo aperto. In queste condizioni sarebbero oltre 20.000 donne, a loro volta per lo più vedove. In quanto sospettate di avere avuto legami con lo Stato Islamico, non ricevono aiuti umanitari, non possono tornare a casa e subiscono in gran numero violenza sessuale. Amnesty International all’inizio del 2018 ha visitato otto campi profughi delle province di Ninive e Salah al-Din. Ne è derivato un rapporto, intitolato “Le condannate: donne e bambine isolate, intrappolate e sfruttate in Iraq”, che denuncia l’enorme discriminazione praticata dalle forze di sicurezza, dal personale dei campi profughi e dalle autorità locali nei confronti delle “ospiti”. In tutti gli otto campi profughi visitati è stato praticato lo sfruttamento sessuale.

Siamo di fronte a una vera e propria punizione collettiva nei confronti di persone che non hanno commesso alcun reato se non essere madri, mogli, sorelle o figlie di uomini appartenenti allo Stato Islamico, o fuggite dalle roccaforti del gruppo armato o “colpevoli” di avere un nome simile a quelli presenti nelle liste dei ricercati. E poiché questi uomini sono agli arresti, sono spariti nel nulla o sono stati uccisi, nei campi profughi iracheni ci sono migliaia di nuclei familiari guidati da donne costrette a badare a se stesse e ai propri figli. Senza nessuno cui chiedere aiuto, senza un posto dove andare. Senza documenti con cui uscire. “A volte mi chiedo: perché non sono morta in un attacco aereo? Ho cercato di suicidarmi, mi sono versata addosso del cherosene ma, prima di darmi fuoco, ho pensato a mio figlio. Sono come in una prigione, completamente sola, senza mio marito, senza mio padre, senza più nessuno”, ha raccontato “Maha”. Queste donne rischiano anche di essere stuprate. Quattro di loro hanno riferito ad Amnesty International di aver assistito a stupri o di aver sentito le urla di una donna, in una tenda vicina, stuprata a turno da uomini armati, personale del campo o profughi di sesso maschile.

“Dana”, 20 anni, ha raccontato di aver subito numerosi tentativi di stupro e di ricevere costanti pressioni da un uomo della sicurezza per avere rapporti sessuali: “Siccome mi considerano alla stregua di un combattente dello ‘Stato Islamico’, mi stupreranno e mi rimanderanno in tenda. Vogliono far vedere a tutti quello che possono farmi, privarmi dell’onore. Non mi sento al sicuro nella tenda. Vorrei una porta da poter chiudere e delle pareti intorno a me. Ogni notte dico a me stessa che è la notte in cui morirò”. Il destino per queste donne e le loro famiglie è di rimanere in questi o altri campi. In diverse parti dell’Iraq, infatti, le autorità locali e tribali hanno vietato il ritorno delle donne e dei propri figli sospettati di avere legami con lo Stato Islamico. Potrebbe essere, per assurdo, il destino meno infelice. 

Tra sgomberi e violenze

Nelle zone in cui sono riuscite a tornare a casa, molte donne rischiano sgomberi forzati, sfollamenti, saccheggi, intimidazioni, molestie e minacce sessuali. In alcuni casi, le loro abitazioni sono state marchiate con la scritta “Daesh” (il nome arabo dello Stato Islamico). In seguito sono state distrutte o non hanno più ricevuto elettricità, acqua e ulteriori forniture. E la situazione rischia persino di peggiorare, dato che i finanziamenti internazionali per la crisi umanitaria in Iraq si stanno riducendo notevolmente. Sulle donne di cui parliamo in questo articolo si sta abbattendo una duplice discriminazione. La prima – nulla di nuovo – è di genere. La seconda ha a che fare, profondamente e direttamente, col concetto di “civile”. In questo decennio la distinzione tra chi prende parte alle ostilità e chi ne è estraneo si è progressivamente assottigliata. La strategia militare delle forze regolari (assistite da milizie e gruppi armati pro-governativi), di fronte a un avversario che è un assieme liquido di combattenti e terroristi, è di colpire ovunque e comunque. Perché, comunque, il civile non è soltanto un civile. Da qui la teoria che le popolazioni civili sotto assedio non siano vittime ma complici, “altrimenti sarebbero fuggite”. E che, dunque, l’essere stati sotto assedio fino alla “liberazione” sia una prova di complicità, più che una sciagura. Questa teoria falsa e pericolosa ignora le tattiche crudeli adottate da quei gruppi armati che s’insediano tra i civili, prima a scopo di conquista e dopo a fini di difesa. Da Mosul a Raqqa, sono innumerevoli le testimonianze di civili presi come scudi umani, di vie di fuga minate, di uomini armati che si mescolano ai civili occupandone addirittura le case e obbligando gli abitanti a una convivenza forzata.

Vittime e carnefici

Ecco che allora quando, Mosul è stata liberata, si è creato quel sospetto generalizzato che chi era rimasto era complice degli occupanti. Ecco che soprattutto le donne sono state prese di mira. Già all’inizio ho descritto casi in cui l’inganno, la malizia e altri raggiri hanno creato il fenomeno delle “foreign wives”. Il destino di queste donne pare segnato: in Iraq sono odiate, i governi europei non hanno interesse e dunque non si adoperano per il loro rientro. Ma, come scrivevo, è una piccola parte del problema: fa notizia sapere che così tante donne europee siano partite verso il Medio Oriente, che rischino la pena di morte in luoghi lontani. Fa meno notizia il dramma delle donne del posto. Francesca Mannocchi, per l’Espresso (http://espresso.repubblica.it/internazionale/2018/04/19/news/noi-vedove-dell-isis-prigioniere-dell-odio-1.320806) ha visitato il campo profughi di al-Jadda, dove le tende delle “famiglie dell’Isis” (ovviamente solo donne e bambini) sono nascoste in un’apposita sezione, la DD.

“Qui non ci danno l’acqua potabile, non ci danno niente da mangiare. Quando mi metto in fila per la distribuzione del cibo e i funzionari si rendono conto che vengo dalla sezione DD, mi sputano. Stamattina un uomo che era in coda vicino a me mi ha riconosciuto, ha capito che ero di Isis e ha cominciato a urlare che sono una sgualdrina e ha dato un calcio a mio figlio e nessuno glielo ha impedito. Nessuno lo ha fermato”, racconta Noor. A poca distanza, ci sono le tende delle “famiglie delle vittime dell’Isis”: “Famiglie intere che hanno perso le proprie case, madri che hanno perso i propri figli sotto i bombardamenti, padri che hanno visto i figli costretti a impugnare le armi da ragazzini e combattere in nome di una folle interpretazione della religione”. In questo campo, racconta Mannocchi, a disposizione c’è solo la paura, in gran quantità. Nessun progetto di deradicalizzazione, nessun programma educativo per i bambini, nessun supporto terapeutico per chi ha vissuto quotidianamente la violenza, fino al terribile epilogo finale. Insomma, la guerra contro lo Stato Islamico sarà pure finita, ma la sofferenza dei civili iracheni no. Forse non sarà così per le donne, anche per quelle che hanno creduto al “califfato”. Ma i loro figli sono pienamente dentro la fabbrica globale del rancore. Dai campi profughi iracheni non arriva alcuna speranza di un futuro diverso.


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