Alla povertà si risponde con il pane: così avrebbe detto don Tonino. Un legame complesso e faticoso tra le disuguaglianze e le violenze di oggi.
Il nr. 59 dell’Evangelii Gaudium e il successivo contengono già nel titolo lo svolgimento dell’argomento. La mancanza di aequitas, l’assenza della giustizia, è l’humus che genera violenza e morte.
L’inequità, proprio così: si scrive con la e, e non con la i, anche se ce n’è anche per l’altra: l’iniquità, perché si tratta purtroppo di due gemelle, una peggiore dell’altra. Si direbbe più che gemelle sono – immondamente – l’una la madre e la figlia dell’altra: l’inequità genera l’iniquità, perché l’ingiustizia genera malvagità e perversione, cioè la violenza, e questa genera altra ingiustizia, sicché è altrettanto vero che l’iniquità genera l’inequità. Sono parole entrambe esistenti nel dizionario italiano, ma quando scrivete quest’ultima, al pc o sul telefonino, la vedrete probabilmente corretta in iniquità. Miracolo della tecnologia odierna: è come se i nostri correttori automatici sapessero già che le due madri-gemelle sono così strettamente correlate da potersi ridurre solo e semplicemente all’iniquità. Troppo saggi o troppo indottrinati, per non parlare dell’ingiustizia! Chi può dirlo? Chi ha redatto l’algoritmo del correttore forse non conosce Cicerone, che parlava di aequitas come uguaglianza, mentre qualche studioso ne fa derivare il concetto da aequor, liquore e liquido. Ciò rimanda al livellamento, come la superficie del mare, ma fa anche pensare che ogni singola parte è partecipazione senza separazione di un unico oceano.
Amnesie
L’amnesia di tale comune appartenenza genera tutte le nostre paure. È ansiogena e produce fantasmi, partorisce mostri immaginari, dai quali pensiamo di doverci difendere e così accumuliamo armi mentre ingigantiamo la presunta pericolosità dei nemici. Ne è effetto costosissimo, quanto pericolosissimo il mito moderno della sicurezza che se era nato come custodia di ciò che ci è di più caro, è tristemente degenerato in ideologia, anzi in pericolosissimo sillogismo: solo se avrò armi più potenti del mio nemico, sarò al sicuro; ma giacché non so quanto egli sia diventato pericoloso, devo costruire armi che offrano la massima difesa possibile. Tutto ciò spinge verso la follia inarrestabile di un più distruttivo e autodistruttivo riarmo.
Troviamo anche questo pensiero nello scritto di papa Francesco, ma è già presente nell'ultima parte della costituzione conciliare Gaudium et spes (cap. V): “Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza”. Da molte parti e con sempre maggiore insistenza. Da parti contrapposte, che se non sono più, come all'epoca del Vaticano II, il blocco orientale (socialista) e quello occidentale (liberal-democratico), verrebbe da dire sono quello nord-atlantico (inclusi gli Stati più ricchi della Russia, della Cina ecc.) e quello dei poveri: degli innumerevoli poveri, che il venerato e ormai venerabile maestro e confratello don Tonino Bello descriveva così: “Turbe alla deriva. Popoli senza terre. Innocenti senza padri. Violenze tra poveri. Galassie endemiche di fame. Allucinanti situazioni di subumanità. Frontiere che stanno per cedere come vecchie ringhiere, sotto l’urto di gente dagli occhi stravolti, non si sa bene se imploranti o minacciosi” (Scritti di pace, Luce e vita, 345).
Il profeta di pace, che volle la rivista su cui scrivo, commentava il messaggio di San Giovanni Paolo II per la XXVI Giornata mondiale della pace (01/01/1993) “Se cerchi la pace, va’ incontro ai poveri” e lo riassumeva, magistralmente in tre assunti, che rinveniamo anche in papa Francesco: 1) la povertà è fonte di guerra; 2) la povertà è frutto della guerra, o della violenza, che chiamavamo iniquità, anche a sottolineare la struttura socialmente peccaminosa del sodalizio tra le due sorelle iniziali e che sono commistioni spaventose tra le classiche Erinni (personificazioni della vendetta e della furia) e le altrettanto note Arpie (il cui semplice nome evoca anche oggi ruberie e furti senza numero e senza fine); 3) lo spirito di povertà come fonte di pace.
Pane per tutti
Per quel che ci riguarda, quest’ultimo punto ci impegna ancora più direttamente e personalmente e lo troviamo espresso in molti altri paragrafi della Evangelii Gaudium, come, ad esempio il 188: “… si comprende la richiesta di Gesù ai suoi discepoli: ‘Voi stessi date loro da mangiare’ (Mc 6,37), e ciò implica sia la collaborazione per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete che incontriamo”.
Alla povertà si risponde con il pane, avrebbe commentato don Tonino, pane condiviso e pane della gioia fraterna, che certamente è molto più di quello occasionalmente elargito nei pentathlon occasionali e sotto l’urto di una commozione intensa quanto estemporanea. È ciò che anche papa Francesco chiama solidarietà, completando così il pensiero: “La parola solidarietà si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all'appropriazione dei beni da parte di alcuni”.
La nuova mentalità non si raggiunge se non attraverso una sperimentazione in proprio e pagando di persona. Le parole di don Tonino a riguardo furono un ottimo commento di quel messaggio di Giovanni Paolo II, lo sono anche oggi per quest’esortazione di papa Francesco, per la quale, certamente, sorride oggi compiaciuto nel cielo. Rispondeva a quel titolo drammatico e realistico “La povertà madre spietata delle guerre” con l’invito alla condivisione del pane attraverso la riscoperta di un modo sobrio e solidale di gestire i propri beni, diventando più poveri: “È la terza parte del messaggio che mette in crisi la nostra coscienza individuale e collettiva. In pratica il Papa dice che non basta combattere la povertà con gli offertori delle nostre eccedenze, o con gli “una tantum” delle nostre oblazioni, e neppure con la richiesta forte perché cambino le regole del gioco economico che penalizzano i più poveri. È necessario che noi diventiamo poveri!” (Scritti di pace, 346).
È ancora più necessario per testimoniare che non solo un altro mondo è possibile, ma anche che un altro modo di vivere è realistico. È tanto più urgente, se vogliamo, esprimerci con i fatti: contro il “il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore”, di cui parla papa Francesco. Egli denuncia, con uguale chiarezza profetica, che “il consumismo sfrenato, unito all'inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale … [perché] la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai”.
È necessario praticare tale sobrietà, ma non come atto volontaristico, o, peggio eccentrico, ma come testimonianza del nuovo, del Regno di Dio, perché, per terminare ancora con don Tonino: “Il futuro ha piedi scalzi, scrive un poeta. Appartiene ai poveri, cioè, che vengono a evangelizzarci la pace. Essi sono la provocazione di Dio. Anzi sono l’icona delle provocazioni di Dio verso un mondo più giusto, più libero, più in pace, in cui la convivialità delle differenze diventi costume” (ivi, 346-347).
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Evangelii Gaudium, 59
Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’iniquità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l'inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende a espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate.