È possibile che all'imperdonabile sul piano storico possa seguire un’altra occasione di perdono, affidata a Dio
o a “uomini non più viventi”? Le domande aperte, la complessità dei sentimenti in gioco, le parole e i tormenti che si celano dietro la richiesta e la concessione del perdono.
Alberto Conci
“Egregio signore, nel giugno del 1942 a Leopoli, in circostanze insolite, una giovane SS che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace, mi disse, dopo avere ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di doverglielo rifiutare. Ne discussi poi a lungo con i miei compagni di deportazione, e, finita la guerra, andai a trovare la madre del giovane nazista, ma non trovai il coraggio di rivelarle la verità su suo figlio. Questa vicenda continuava a tormentarmi. Così decisi di fissarla per iscritto, e alla fine del mio racconto rivolgo la domanda che ancora oggi merita una risposta, per il suo significato politico, filosofico e religioso: ho avuto ragione o torto negando il perdono?”.
La richiesta
Vale la pena di partire da qui. Non solo per la portata della vicenda storica nella quale si inserisce questa lettera, spedita a più di cinquanta persone di nazionalità diverse, ma anche perché, rendendo pubblica la sua domanda, Simon Wiesenthal ha aperto una discussione così ampia da condizionare il dibattito degli ultimi cinquant’anni sul perdono. Quando scrive quella lettera, sono passati 28 anni dal giorno in cui ha incontrato Karl, la giovane SS che gli chiede perdono per i suoi crimini, e in particolare per l’uccisione di una madre, di un padre e del loro bambino dagli occhi scuri. Al capezzale del soldato, l’ebreo internato nel Lager di Leopoli ascolta in silenzio il lungo racconto del giovane, resistendo alla tentazione di andarsene, fino alla fine, quando Karl gli dice: “Lo so, quello che le ho raccontato è orribile. Nelle lunghe notti in cui aspettavo la morte ero assillato dall’ansia di parlarne con un ebreo… di chiedergli il suo perdono. Lo so, quello che chiedo è forse troppo per lei. Ma senza una sua parola non posso morire in pace”.
Una richiesta di fronte alla quale Wiesenthal ricorda “restai muto”, ma che lo tormenterà per tutta la vita, nonostante il sostegno dei compagni di baracca: “Sai – gli dirà l’amico Josek – mentre raccontavi del tuo incontro con la SS sulle prime ho avuto paura che tu gli avessi perdonato. Perché lo avresti fatto in nome di uomini che non ti avevano mai autorizzato a tanto”. Trasferito a Mauthausen, nel 1945 Wiesenthal conobbe Bolek, un seminarista cattolico polacco che gli disse: “Non credo che ti abbia mentito. Quando si guarda in faccia la morte non si mente più. Dimentichi una cosa: quell’uomo non poteva più vivere abbastanza per espiare la sua colpa, non aveva più modo di riparare presso i vivi il male fatto ai morti”. E Wiesenthal: “Devo riconoscere di aver provato compassione per quell’uomo. Ma la coscienza di non impersonare il tribunale autorizzato ad accogliere la sua richiesta era più forte di ogni pietà”. Eppure, nel 1946, di fronte a un campo di girasoli, che nell’Europa dell’est venivano piantati sulle tombe dei caduti tedeschi, riaffiora la domanda (“Avevo forse qualcosa da rimproverarmi?”) che lo spinge a far visita alla madre del giovane nazista.
Il tormento
Sullo sfondo del tormento di Wiesenthal si possono riconoscere due questioni fondamentali: la percezione dell’irreversibilità dei crimini di Karl e la consapevolezza che la sua richiesta carica sulle spalle della vittima un ulteriore peso, quello della sofferenza del carnefice che chiede perdono per il male compiuto.
Le risposte alla domanda angosciata di Wiesenthal, pubblicate in calce al racconto che uscì nel 1970 (Il Girasole. I limiti del perdono, Garzanti) rappresentano oggi un punto di non ritorno per chi rifletta sul perdono. Al punto da far dire a Paolo de Benedetti “se il secolo XX dovesse trasmettere al secolo XXI un solo messaggio, vorrei che fosse l’angosciosa domanda del Girasole”.
Colpisce, nella varietà delle risposte, il fatto che alla fine solo pochi insistano sulla necessità del perdono del carnefice, e sempre da una posizione cristiana. Ma anche qui prevale la problematicità. Il dato è fondamentale perché stabilisce una linea di demarcazione fra l’amore, che è IL comandamento affidatoci da Gesù, e il perdono. Così, alle parole del cardinal König, già vescovo di Vienna (“Alla domanda se esista un limite al perdono, ha risposto Cristo in modo decisamente negativo”), che riconosce un valore sacramentale all’ascolto della confessione del carnefice morente da parte di Wiesenthal, fa da contraltare la risposta di Leopold Sengor, poeta e presidente del Senegal: “Come cristiano penso che lei avrebbe dovuto perdonare. […] Come cristiano e come nero avrei perdonato, credo, alla SS. Ho detto ‘credo’. Non voglio dire che l’avrei fatto senz’altro. Forse, nelle sue medesime circostanze anch’io avrei agito allo stesso modo. Ho detto ‘forse’. Chi può mai sapere?”. Ma di fronte all’enormità del crimine e soprattutto al fatto che la morte delle vittime rappresenta una soglia irreversibile, le risposte si fanno più articolate: non è la stessa cosa chiedere perdono ai viventi, ai morti, o ai viventi in nome di coloro che non ci sono più.
La sfida
Scrive Eva Fleischner, impegnata nel dialogo ebraico-cristiano negli Stati Uniti: “Gesù mi sfida a perdonare per il male fattomi (già questa è una bella sfida). Ma da nessuna parte sta scritto che Gesù ci imponga di perdonare il male fatto a qualcun altro”. E su questo versante, la risposta di Cinzia Ozick colpisce per la sua lucida durezza: “Il perdono – sostiene la scrittrice americana – è un maestro efficace, e intanto le macchie potranno essere lavate. Ma l’assassinio è irrevocabile. È irreversibile. Quando si tratta dell’assassinio non esiste una prossima volta. E anche se il perdono impedisse la comparsa di un nuovo mucchio di cadaveri, il mucchio precedente tornerà in vita? Esistono macchie che il perdono non può lavare”. E conclude: “Il perdono è spietato. Dimentica la vittima. Nega alla vittima il diritto alla vita. Offusca le sofferenze e la morte. Annega il passato. Coltiva una sensibilità nei confronti dell’assassino al prezzo dell’insensibilità nei confronti della vittima. […] Il perdono è implacabile: l’aspetto del perdono è mite, ma quanto inflessibile appare alle vittime del macello! Ho scoperto una citazione attribuita ad Hannah Arendt: ‘l’unico antidoto all’irreversibilità della storia è la facoltà di perdonare’. Parole vuote: Hannah è il più grande filosofo morale del nostro tempo, ma nemmeno lei può fare risuscitare la storia”. Un giudizio durissimo, cui fa eco Abraham Heschel: “Nessuno può perdonare un delitto che sia stato compiuto contro altri uomini. È assurdo quindi pensare che un qualsiasi uomo vivente possa perdonare le sofferenze di sei milioni di ebrei”. Una lettura che lascia al carnefice cosciente dell’enormità del suo crimine solo lo spazio della disperazione assoluta… se non fosse per quella parola “vivente” che lascia aperto uno spiraglio proprio mentre afferma l’imperdonabilità storica dell’atto di privare della vita un altro uomo.
Imperdonabile?
Ma è possibile che all’imperdonabile sul piano storico possa far seguito un’altra occasione di perdono, affidata a Dio o a uomini non più viventi (per intercessione delle vittime…?)? Qui i piani si diversificano ancora. Da una parte con Gabriel Marcel possiamo dire “… Questo è uno degli innumerevoli casi in cui l’unica risposta valida è fuori dalla nostra portata. E non può essere formulata che nell’aldilà” o con Paolo de Benedetti “… Esprimendomi con un paradosso, direi che chiedere perdono e non riceverlo era la condizione necessaria per entrare nell’Altra vita dove Dio può – ma solo là, non quaggiù – perdonare i morti a nome dei morti”. E dall’altra siamo provocati dalla bruciante domanda di Horkheimer, per il quale il vero problema posto dalla morte della vittima è quello di vedere se almeno al di là della morte ci sarà giustizia, o se il carnefice abbia vinto per sempre sulla propria vittima.
Per molti aspetti, proprio a partire da questa domanda irrisolta di Horkheimer diventano più comprensibili le dure risposte di coloro che ritengono che di fronte a un crimine irreversibile come il togliere la vita non ci sia quasi spazio di perdono. Così Primo Levi: “Lei ha avuto ragione nel rifiutare al morente il suo perdono”, perché “il suo gesto, di far chiamare un ebreo, mi sembra a un tempo infantile e insolente. Infantile, perché ricorda troppo da vicino quello del bambino indifeso che chiama soccorso […]. E insolente, perché ancora una volta il nazista si serviva dell’ebreo come di uno strumento […] Esaminato in profondità il suo gesto si tinge di egoismo, perché vi si riconosce il tentativo di scaricare su di un altro la propria angoscia”. Alle sue fanno eco le parole di Cargas (“Se Dio decide di perdonare Karl, affari suoi. Simon Wiesenthal non se l’è sentita, nemmeno io me la sento. Per me, Karl muore senza perdono. Che Dio abbia pietà della mia anima”), della Ozick (“Che la SS muoia senza assoluzione. Che vada all’inferno”), di Marcuse (“Io penso che avrei agito come ha agito lei: ossia avrei respinto la supplica della SS morente. Mi è sembrato sempre fuor dell’umano, un travisamento della giustizia, il carnefice che chiede perdono alla vittima”) o, con argomentazioni diverse, della psicologa Luise Rinser, processata dai nazisti perché tradita da un’amica alla quale scrive dopo la guerra: “Tu vieni a scusarti con me, è inutile e senza senso. Inutile perché per me personalmente le sofferenze del carcere sono senz’altro superate dall’arricchimento spirituale che me ne è derivato. Senza senso, perché le tue scuse vengono troppo tardi, e non sono quindi pulite. […] Alla base della tua conversione non sta il riconoscimento della falsità, della perfidia, della stupidità, della mostruosità di quel regime, ma soltanto l’amara esperienza della sua caduta. No, non accetto le tue scuse”.
Questo dibattito ovviamente non si è fermato qui. Esso è riaffiorato ogniqualvolta l’umanità si è trovata di fronte a crimini “imperdonabili”, perpetrati da Stati criminali o da terroristi che hanno avuto la spudoratezza di ammantarli di ideali di giustizia. Ne possiamo ricavare alcuni elementi di riflessione, dai quali ripartire per interrogarci sulla possibilità (e sui limiti?) del perdono.
Prima di tutto non va persa di vista la gratuità “arbitraria” del perdono, che tende a porre fine a una storia di rancore, anche se, lo abbiamo visto, le cicatrici sono incancellabili. E proprio in questa radice di male, che è alla base del perdono, sta la differenza con l’amore, che non prende le mosse dal male subito.
In secondo luogo, si deve distinguere il “perdono facile”, che è una forma inautentica di perdono, da quello “difficile”. Nel suo saggio sull’enigma del passato, Ricoeur ha distinto il perdono facile, inautentico, dal perdono autentico, il “perdono difficile”: “Il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi. È qui che il perdono confina con l’oblio attivo: non con l’oblio dei fatti, in realtà incancellabili, ma del loro senso per il presente e il futuro”. Si tratta, dunque, di “tracciare una linea sottile fra l’amnesia e il debito infinito”, fra la crudele cancellazione del male ricevuto e la sordità nei confronti della sofferenza del carnefice. Il perdono difficile è nell’equilibrio che mantiene la coscienza del male e insieme rimane aperto alla possibilità del cambiamento. Un equilibrio che tuttavia non può mai chiudere gli occhi sulla verità e sul bisogno di giustizia della vittima.
Un dialogo
In questo senso, terzo, il perdono autentico non è privo di condizioni. Contrariamente a quanto affermano coloro che, come Derrida, ritengono che il perdono vada concesso a prescindere da ogni condizione, mi sento più vicino alla posizione di Jankélévitch secondo il quale “Il perdono non è un monologo, ma un dialogo che implica la presenza dell’altro per attuarsi, e la prima battuta di questo dialogo è proprio pronunciata dal colpevole pentito, che chiede perdono” (Chiara Cozzi). Ciò non rende meno eversivo l’atto di perdonare, ma lo restituisce alla relazione.
Infine, il perdono autentico non è un atto, ma un processo. E in questo processo va salvaguardata prima di tutto la fatica della vittima, per evitare che il perdono assuma i contorni di un ricatto di fronte al pentimento del colpevole.
Vale la pena di rileggere le parole pronunciate in un dialogo con un gruppo di studenti da Gemma Calabresi, vedova del commissario Calabresi, assassinato nel 1972: “Quando mia madre si è trovata a pensare alle parole per il necrologio, mi ha chiesto se ero d’accordo a utilizzare quelle che Gesù ha pronunciato sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E ha motivato questa richiesta dicendomi che si deve sempre fare tutto quello che è possibile per spezzare la catena dell’odio. Così il necrologio di Gigi è uscito con quelle parole. Io le ho accettate, ma non credo che in quel momento avrei avuto da sola la forza per scegliere proprio quella citazione. Anzi, in quel momento non credo mi abbia nemmeno sfiorato il pensiero. La riflessione sul perdono si è sviluppata lentamente nella mia vita. Quelle parole di Gesù, “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, con il passare del tempo mi hanno posto sempre più seriamente il problema del perdono. Quale significato hanno quelle parole? Mi sono chiesta: perché Gesù, che è figlio di Dio, al culmine della sua vita, dopo un cammino di testimonianza e di predicazione, non ha avuto la forza di dire “Vi perdono, perché non sapete quello che fate”? Perché non ha perdonato personalmente? Io credo perché in quel momento era uomo, e come uomo sapeva quanto fosse difficile perdonare in una situazione del genere, davanti alla sofferenza, alla tragedia e alla morte. Ma non dobbiamo leggere questo fatto come l’impossibilità di perdonare, come se, visto che non ci riesce nemmeno Gesù, di fronte alla violenza che uccide non ci sia nessuna possibilità di perdono. Al contrario a me sembra che Gesù in questo modo ci indichi una strada: quella di chiedere a Dio di perdonare in vece nostra, lasciando a noi il tempo del cammino. Come dire che è pienamente umano non riuscire a perdonare, soprattutto all’inizio. Il cammino del perdono dura una vita, e questo credo che sia il senso delle parole di Gesù, che ci indicano la strada dell’affidarsi a Dio da una parte e il rispetto per il cammino dell’uomo dall’altra”.
Ecco… mi chiedo se non si potrebbe ripartire, oggi, da questa prospettiva per comprendere il significato del cammino, sempre lungo una vita intera, del perdono.