Cosa è il perdono? Quali sono i suoi presupposti? Una lettura guidata della parabola del padre misericordioso, che richiama la vita quotidiana di tutti.
Con relazioni, ritorni, attese e speranze.

Andrea Bigalli

 

Non tutta la Scrittura ha superato il confine, difficilmente definibile, tra una conoscenza adeguata e diffusa di alcuni testi e l’idea che si tratti di un libro per esperti, interessati alla materia religiosa. Nella generale ignoranza della letteratura in quanto tale, quella sulla Bibbia risulta grave, in quanto significa essere privati di conoscenze culturali adeguate per altri campi di conoscenza. Si può dire di conoscere appieno la storia dell’arte di alcuni periodi, non sapendo niente delle storie bibliche che sono soggetto della maggior parte delle opere da studiare?

Eppure. Anche per reminescenze di catechismi passati o in qualche frammento recepito in tradizioni laiche che si sono contaminate con la Parola di Dio, qualche testo continua a parlare al cuore di persone anche molto lontane da un’identità di fede. Fino a casi significativi, con donne e uomini di pensiero che fanno riferimento in piena laicità a concetti biblici. Il risultato spesso gode del valore delle contaminazioni positive. Ci sono testi nel dettato biblico che condensano quanto Dio ha inteso comunicare agli esseri umani con il suo dire, nelle capacità sintetiche e poetiche che gli autori (e le autrici) hanno tratto dall'ispirazione divina. Alcuni di questi brani sono di quelli a cui accennavo prima, hanno fatto strada culturalmente nelle tradizioni generazionali. Molto Evangelo è rimasto nella coscienza di chi lo ha ascoltato. E continua a generare non solo echi, ma veri e propri riferimenti, più o meno consci. Del resto, la Parola porta frutti anche in assenza di fede; o meglio, anche laddove la fede non è consapevole, ma in realtà presente in valori umani ben determinati, con i quali Dio incontra e suscita pensieri e azioni di bene.

Tra padre e figlio 

È impressionante riflettere quanto l’evangelista Luca abbia saputo trarre dalle narrazioni sulla predicazione di Gesù in una pericope come quella di 15, 11-32.

La vicenda è semplice: un conflitto tra un padre e i suoi figli, il più giovane prima e poi il maggiore. Storia di lacerazioni, si presume incomprensioni: e dissipazioni, la fatica delle identità e delle etiche, i rancori, gli immaginari reciproci. L’accoglienza, il perdono, la festa. Del resto, è la storia degli esseri umani. Nel loro essere famiglia, inevitabilmente conoscono il dissidio dove più dovrebbero albergare sentimenti risolti, di bene assoluto. Invece, la contraddizione si afferma dove c’è il livello più alto di vicinanza, nell'ambito biologico. Se pure qui, figuriamoci altrove. È la storia del peccato e della dannazione: ci si divide dove si dovrebbe sapere il linguaggio della migliore comunicazione. Nel libro della Genesi, Dio chiede ad Adamo dove sia, in quale luogo segreto si nasconda, da se stesso prima che da suo Padre; a Caino dov'è suo fratello, a cui ha negato esistenza, pur avendo la possibilità di vivere diversamente questo rapporto. 

Perdono e memoria

Perdonare è, dunque, molto di più che accettare o tollerare l’ingiustizia, molto più che frenare la rabbia e il dolore derivanti da un torto. Un errore comune è pensare che perdonare equivalga a dimenticare. Perdonare non significa assolutamente dimenticare, ma ricordare con altri occhi. In questo modo il perdono diventa il modo più intelligente e saggio di amministrare la “memoria ingrata” costituita da tutte le inevitabili limitazioni e offese arrecateci dal nostro prossimo nel corso del tempo. Perdonare ricostruisce la memoria ed evita l’amnesia. Nel cristianesimo il sacramento dell’Eucarestia costituisce un potente esercizio di “amministrazione del ricordo”. “Fate questo in memoria di me”, dice Gesù. È la memoria triste di un assassinio trasformata in memoria che redime. Perdonare non significa neanche condonare le ingiustizie. Le istituzioni della giustizia devono applicare le leggi in ogni Paese. Il perdono è piuttosto un esercizio personale di pulizia interiore e di catarsi che serve per ritrovare benessere, ma anche per evitare le ritorsioni e l’escalation di violenza attraverso la spirale delle vendette. I governi possono decidere di concedere amnistie e indulti. Ma il perdono è, e sarà sempre, privilegio esclusivo delle vittime.

Padre Leonel Narvaez

Le narrazioni bibliche ed evangeliche sono tessute di percorsi nelle identità umane, compiono il miracolo di esprimere molto attraverso racconti semplici. Lo fanno con dinamiche che vanno conosciute, pena il continuare a pensare che siano elementari, ancorate a una visione del mondo primitiva e insufficiente. Invece emerge con chiarezza la capacità di leggere i sentimenti, illustrarli e analizzarli. 

Si chiama esegesi, è la comprensione di un testo nei suoi vari livelli. Se lo sai fare con un testo forse lo sai fare anche con la tua vita. L’esegesi biblica rimanda in ogni caso alla vita, non può mai essere esercizio di stile fine a se stesso.

Seguendo questa linea di riflessione, secondo una dinamica pedagogica che si traduce in una valenza esegetica godibilissima, i verbi di movimento nella Bibbia sono espressione di movimenti interiori; la scarna metafisica ebraica traduce il cammino fisico nei moti della coscienza e della memoria. Il figlio minore se ne va via dal padre, dopo aver chiesto e ottenuta la sua parte di patrimonio. Dilapida la ricchezza di casa, i termini della sua tradizione identitaria. Poi, “torna in sé”. Sembra farlo solo per bisogno, per sfuggire alla fame; ma il ritorno al padre ha il significato di un convertire verso ciò che ha senso perché è radice, elemento basilare di identità, appunto. Realtà affettive di cui potersi nutrire, in una casa paterna intesa come luogo della trasmissione di senso. Non a caso la condizione di peccato, di contraddizione, il dolore del dissiparsi è spiegato in un essere “fuori da sé” a cui si risponde con un ritorno in sé; ma ciò attraverso un percorso di ritorno alla propria radice.

Il perdono rigenerante 

Il perdono rigenerante del Padre (in questa misericordia ne comprendiamo gli elementi divini, da qui il maiuscolo che rimanda a un nome proprio) diviene il contenuto fondamentale di tale trasmissione. Il figlio fa sua la cultura familiare dopo averla rifiutata: forse non c’è modo possibile di fare ciò se non andandosene, trasgredendo, rifiutare un ruolo precostituito, da verificare nelle vicende di vita. E per tutelarsi dalle letture reazionarie che vedono il figlio asservirsi alle logiche paternalistiche di un padre padrone (così di fatto lo presenta il figlio maggiore), indicando il ritorno a casa come il tornare a una cultura rassicurante perché provata e radicata nel “è sempre stato così”, si ricordi che il Padre non chiede al figlio condizioni di conformità alla cultura familiare se non quella di rientrare pienamente in una dignità smarrita. Inoltre, l’abbraccio tra Padre e figlio non è soltanto segnato da una “compassione” generica, che esprima magari proprio il senso di considerazione di un superiore verso l’inferiore; la traduzione del termine rischia, comunque, di impallidire un concetto fortissimo; il “viscere di misericordia” del Padre (anche Madre, nel suo possedere un ventre di donna) gli consente di amare il figlio fino a ri/generarlo. Altro che moto affettivo di commozione per un ritorno all'alveo domestico… Prima del colloquio tra Padre e figlio, vi è l’attesa del primo e il suo andare incontro all'altro. Se va incontro è perché attendeva e scrutava da lontano; un ritorno non certo, solo sperato. 

Il perdono trova radici solide in questo sperare in quanto l’altro possa fare di sé, è cercare un sé smarrito ma che puoi riportare alla luce, un’identità positiva che si può rigenerare. Dal rientrare in sé al rientrare in una casa, un ruolo, un’identità: perché questo sia possibile occorre che uno dei due esca per recuperare, dopo aver atteso nella speranza di un cambiamento, nell’attesa di un ritorno. Di certo il perdono disegna il quadro di una festa, e con radici solide: non è l’oblio della realtà, ma la possibilità di contemplarla secondo altre dinamiche, che mettano in conto la possibilità di convertirsi a questa festa. Perché o il cristianesimo è la festa dell’umano che si libera e celebra non solo la fine del tempo della cattività, ma anche l’Eterno che irrompe nell'oggi, o rimane evento sociologico, storicizzato, senza possibilità di essere realmente quel che deve. Si annunciano la salvezza e la liberazione assoluta nella Resurrezione, non è il caso di abbassare orizzonti e significato possibile. Lo facciamo già da troppo tempo. Si pensi al fatto che il perdono cristiano nell'immaginario collettivo o è la smemoratezza imbelle degli eventi negativi, o è un vile rinunciare alla responsabilità di affrontare il male e le sue conseguenze, o è un dolciastro appello alla bontà umana. 

Il Vangelo prende sul serio il male. Non lo riduce al ruolo deresponsabilizzante di satana, che consente di dare ad altri la colpa: non pensa a una deviazione passeggera di un’identità comunque buona, che se devia lo fa per caso, come in molti modelli contemporanei di riduzione della conseguenza delle azioni personali (il caso tipico del genitore che giustifica il figlio che ha compiuto atti gravi, pur di non prendere coscienza di quanto sta avvenendo): non lo rende realtà metafisica, ma lo comprende nella sua dimensione storica, nelle narrazioni delle vicende umane. Satana esiste ma va compreso come la possibilità umana di avversare il bene, l’amore che è Dio, potenzialità insita in ogni essere umano. 

Demoni

Le storie delle possessioni diaboliche dei Sinottici sono storie di malattia, ignoranza, pregiudizio, egoismo sociale; una componente antropologica che non dimentica la capacità umana stessa di trascendenza anche nella violenza e nell'esercizio di potere, ma mette nel conto come ci siano molti demoni/daimon, forze capaci di condurre le persone a comportarsi come non vorremmo, forze che subiamo ed esercitiamo all'interno della nostra libertà possibile. Che quindi non mettono del tutto in discussione le nostre responsabilità, pur dando elementi di comprensione del male stesso. Quel che non si riesce a comprendere è arduo da perdonare. È un elemento che emerge dall'esperienza fatta negli anni con i familiari delle vittime, sia del terrorismo, sia delle mafie o di eventi tragici che però comportano responsabilità dirette di altri. La tradizione giudaico cristiana si pone di fronte a un umano che, nella concretezza del vivere, giorno dopo giorno, e sperimenta la terribile ordinarietà di un male che a volte appare totalmente utile alla propria convenienza. Il giusto può smarrire la propria integrità in un momento e l’empio può comunque convertirsi: tutto ruota intorno alle proprie responsabilità, alle scelte che facciamo nelle nostre esistenze. La lezione storica del grande male, per certi aspetti assoluto, che emerge in fasi particolarmente cruente, ci ricorda che esso si nutre dei piccoli mali dichiarati accettabili, convenienti, negativi solo se ci riguardano personalmente. 

Genocidi

La questione del perdono in questi contesti di genocidio o di strage è particolarmente complessa. Se occorre rispondere all'esclusione di responsabilità al riparo della obbedienza, con l’assunto di don Milani che l’obbedienza stessa non esime dalla responsabilità in solido, resta uno spazio vuoto e doloroso nel considerare come strutturare le dinamiche di questo perdono che deve essere richiesto da una intera collettività, che si assume il carico delle vittime e decide di tutelarle chiedendo verità. Perché solo essa garantisce loro dignità e rispetto. Quando si confondono le ragioni delle vittime e dei carnefici e si riducono le ragioni sacrosante delle prime con motivi ideologici, siamo all'eclisse delle etiche. Perché i figli della parabola sono due, diverse le reazioni di fronte all'uscire del Padre verso di loro. Se di solito si parla molto del minore, è del maggiore che bisogna preoccuparsi. Del resto la parabola è per quelli che la pensano come lui, a loro indirizzata. Sono i farisei che chiudono il cuore alla possibilità del perdono per quelli che non rientrano nelle loro gerarchie e, con un giudizio tipicamente borghese delle esistenze altrui, li pensano parte della genia dei maledetti che Dio non può amare. Un dio a loro misura, prodotto della logica idolatrica. Un dio da limitare nella volontà di perdono, di cui si stigmatizza la misericordia, soffrendo un Cristo venuto per dire che “pubblicani e prostitute” passeranno avanti nel Regno dei cieli. Bello schiaffo alle mentalità integraliste e borghesi di ogni tempo… sono coloro che uccideranno Gesù, di cui non tollerano una umanità senza confine, un amore irriducibile.

Il figlio maggiore sente i rumori di festa e danza (le danze hanno un suono… non è solo la musica che ne tesse i movimenti costitutivi, c’è di più: è un rumore di gioia, tracima dai cuori), ma non sa essere contento, non sa essere parte di questa festa del perdono. La parabola non si chiude con una scelta determinata, rimane in sospeso. Il figlio maggiore ascolterà il Padre, rinuncerà a continuare a pensarlo come un potere, un padrone, per sentirlo madre/padre nell'amore con cui lo invita a entrare? Si affrancherà dal pensarsi uno schiavo e vivrà della logica dei figli, degli amici, di coloro che sono amati e vivono di conseguenza, come fratelli? Saprà convertirsi alla logica del perdono che, poiché è espressione della libertà dell’amore, libera e genera cambiamento? Il perdono dà una possibilità all'evoluzione esistenziale, è scelta deliberata di credere in Dio perché si è ancora capaci di credere nell'umano: e viceversa. È il non arrendersi mai all'orrore, sapendo bene che, se si pensa di combatterlo con i suoi mezzi, se ne diventa parte. È essere in grado di sentire i rumori della festa e decidere di conseguenza. Per la festa dell’umano che vive con il cuore di Dio, visto che Dio ha voluto avere un cuore umano.