Potere dei segni

Una lettera a Davide. Don Tonino la scrisse su Mosaico di pace di gennaio 1992. La pubblichiamo a puntate. Per rileggere con le sue parole le nostre necessarie conversioni.

 

Carissimo Davide, sono certo che questa lettera non ti farà piacere. Per tanti motivi.  Prima di tutto, perché fruga nel tuo torbido passato.

E tu puoi essere uomo di Dio finché vuoi, ma la rievocazione indiscreta delle proprie malefatte dà sempre fastidio: anche quando sono state lavate da un pianto sincero come il tuo. In secondo luogo, perché ti rovina un po' l'aureola di santo con cui, sia pure attraverso la finestra del pentitismo, sei entrato nell'immaginario della gente. È come se un cortocircuito ti fulminasse mezze lampadine della corona di luce che ti splende sul capo. E, infine, perché mette in piazza un episodio poco conosciuto della tua vita. Forse meno tenebroso del delitto passionale che ti condusse a far fuori Uria e a portarti in casa la sua signora, ma senza dubbio più inquietante, almeno nelle proporzioni. Hai già capito a quale episodio voglio alludere. Si tratta di una fosca vicenda di estorsione, di fronte alla quale quelle dei taglieggiatori di oggi, che pretendono mazzette e impongono tangenti, sembrano giochi da bambini.  Meno male che non si concluse in un bagno di sangue, così come in un primo momento tutto lasciava presagire. Se no saresti passato alla storia come il più iniquo rackettaro di tutti i tempi. Ti chiedo scusa fin d'ora, comunque, per questa irruzione impietosa nelle tue vicende private. Non lo faccio per smanie dissacratorie. Ci mancherebbe altro che dovessi screditare dinnanzi all'opinione pubblica il capostipite del mio Signore Gesù! Per me rimani sempre "il santo profeta Davide", e, finché campo, ti sarò debitore per quello che i tuoi salmi hanno dato alla mia preghiera personale, arricchendola di poesia e di speranza.

Se mi intrometto nei tuoi affari e pubblicizzo un fascicolo poco noto dei tuoi trascorsi delinquenziali, è solo per dire che tutte le lacrime che hanno scavato il tuo volto sono state versate per cancellare anche quel crimine. Che se il tuo peccato fu grande, ancora più grande fu il tuo dolore. E che, pertanto, se è vero che invochiamo San Pietro perché ci preservi  dal tradimento o san Tommaso apostolo perché ci scampi e liberi dall'incredulità, non vedo perché non dobbiamo implorare te per essere risparmiati, in termini attivi e passivi, da quel "delitto di estorsione" che ti vide perversi protagonista. Ma veniamo ai fatti. Li riassumo dal carteggio riportato dal capitolo venticinque del primo libro di Samuele. Dunque: un ricco massaro, di nome Nabal, che possedeva tra pecore e capre, quattromila capi di bestiame, andò a Carmel per tosare il gregge. Affari d'oro, naturalmente, con tutta quella partita di pura lana vergine. Un fatturato che al giorno d'oggi avrebbe mosso a invidia anche gli industriali del Veneto. Fu qui che la cupidigia ti sedusse, caro il mio profeta. Inviasti dei picciotti da Nabal e, per dirla in parole povere ma estremamente aggiornate col vocabolario della malavita contemporanea, chiedesti il pizzo.

A dire il vero, la richiesta fu apparentemente cortese. Ci tenevi, del resto, a dare all'operazione i tratti della correttezza formale. E mandasti a dire testualmente così: "Ho sentito che stanno tosando le tue pecore. Ebbene, quando i tuoi pastori sono stati con noi, non li abbiamo molestati e niente delle loro cose ha subito danno… Dà, ti prego, quanto puoi dare…". Una vera e propria estorsione, la cui natura ricattatoria si svelò non appena, essendosi Nabal rifiutato di pagare la tangente, passasti alle vie di fatto senza neppure quelle procedure intermedie che si usano ai nostri giorni.