La follia delle armi, del loro export e dei miliardi spesi in difesa militare. Ecco le cifre e i numeri relativi all'anno in corso.
I dati definitivi contenuti nel Rapporto annuale 2018 sulla spesa militare italiana dell'Osservatorio MIL€X (milex.org) confermano quanto anticipato nei mesi scorsi proprio sulle pagine di Mosaico di Pace (cfr. Mosaico di pace, dicembre 2017):
l'Italia sta aumentando i suoi investimenti in difesa militare e soprattutto in riarmo. Quest'anno verranno spesi per le forze armate 25 miliardi di euro (1,4% del PIL), un aumento del 4% rispetto al 2017 che rafforza la tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (+8,6 % rispetto al 2015) e che riprende la dinamica incrementale delle ultime tre legislature (+25,8% dal 2006) precedente la crisi del 2008. Cresce nel 2018 il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, +3,4% in un anno, +8,2% dal 2015) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all'acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, +5% in un anno, +30% nell'ultima legislatura, +115% nelle ultime tre legislature) per i quali nel 2018 verranno spesi 5,7 miliardi (+7% nell'ultimo anno e +88% nelle ultime tre legislature). Tra i programmi di riarmo nazionale in corso, i più ingenti sono le nuove navi da guerra della Marina (tra cui spicca la nuova portaerei Thaon di Revel da 1,2 miliardi), i nuovi carri armati ed elicotteri da attacco dell'Esercito, i nuovi aerei da guerra Typhoon e i bombardieri nucleari F-35. Questi ultimi (dieci aerei già consegnati e un paio in arrivo quest'anno, pagati ognuno 150 milioni di euro) continuano a confermarsi un pessimo affare: infatti, si è appena scoperto che potranno funzionare solo spendendo decine di milioni di euro per aggiornare i computer di bordo di ogni velivolo, per una spesa totale aggiuntiva di quasi mezzo miliardo di euro. Inoltre, sta venendo fuori che i costi operativi di questi aerei saranno così alti che nemmeno la ricchissima U.S. Air Force a oggi potrebbe permetterseli e dovrebbe tagliare di un terzo il numero di F-35 che intende acquistare. Figuriamoci la ben più povera Aeronautica Militare del nostro Paese, che però non osa mettere in dubbio la prosecuzione di questo folle programma di armamento imposto da Washington. Vedremo se il nuovo governo avrà il coraggio di riaprire la questione.
Nuovi programmi
Rimanendo in tema di spese per nuovi armamenti, il neoeletto Parlamento sarà presto chiamato a esprimersi su due nuovi ingenti programmi di riarmo nazionali: venti droni P2HH della Piaggio Aerospace (766 milioni) e due sommergibili U-212 (un miliardo). In entrambi i casi si tratta di commesse che non hanno a che vedere con esigenze di sicurezza nazionale, bensì con quelle dell'industria militare ligure, le cui sorti stanno molto a cuore alla ministra della Difesa uscente, Roberta Pinotti. Quella relativa ai droni (che si andrebbero ad aggiungere a una flotta già molto nutrita di droni Predator e Reaper) ha lo scopo di consentire all'azienda aeronautica di Villanova di Albenga (dal 2014 di proprietà degli Emirati Arabi) di evitare il fallimento (è in perdita di 247 milioni con debiti per 336 milioni) e il licenziamento di 1.300 dipendenti. Quella relativa ai sommergibili serve, invece, a garantire lavoro ai cantieri di Fincantieri di Riva Trigoso. In entrambi i casi sarebbe possibile ottenere gli stessi risultati intraprendendo la strada alternativa delle commesse civili (entrambe le aziende eccellono nella produzione di velivoli executive e navi da crociera), ma è più comodo e veloce, quindi politicamente spendibile, inventarsi un'esigenza militare urgente, tanto pagano i contribuenti. La nuova corsa agli armamenti degli ultimi anni non è certo una prerogativa esclusivamente italiana. L'ultimo rapporto del prestigioso Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (SIPRI) ha infatti mostrato che il fatturato dell'industria della guerra è tornato a crescere grazie alla ripresa della corsa globale agli armamenti, iniziata dopo l'11 settembre ma frenata dalla crisi economica. Dopo cinque anni consecutivi di flessione, il giro d'affari dei produttori di armi è tornato a salire nel 2016 raggiungendo i 375 miliardi di dollari, quasi il 2% in più rispetto all'anno precedente e – dato forse più indicativo – il 38% in più rispetto al 2002. Un aumento confermato dall'andamento delle quotazioni di borsa del comparto difesa: l'indice S&P 500 Aerospace & Defense, che dal 2016 a oggi ha fatto registrare un incremento di quasi il 100% (il doppio rispetto al trend di crescita degli indici di borsa generali come il Dow Jones o il Nasdaq). Il boom di affari di produttori mondiali di armi è legato alla crescita della spesa militare in armi dei Paesi produttori e all'aumento del commercio internazionale di armamenti verso le aree di tensione e di guerra.
Classifiche
Nella top ten della classifica mondiale del settore bellico svettano, come sempre, i colossi industriali americani Lockheed Martin (con oltre 40 miliardi di dollari commesse, trainate da quelle dei cacciabombardieri F-35), Boeing, Raytheon, Northrop Grumman, General Dynamics e L3, assieme alla britannica Bae Systems, alla trans-europea Airbus e all'italiana Leonardo, al nono posto con 8,5 miliardi di fatturato. Quasi il 60% delle armi vendute nel mondo nel 2016 è 'Made in USA', il 10% è di fabbricazione britannica, il 5% francese, il 4% trans-europea, quasi il 3% italiana, oltre il 2% israeliana, altrettanto giapponese e sudcoreana, l'1,6% tedesca. Complessivamente, la produzione di aerea NATO rappresenta circa l'82% del totale: un'enormità se paragonata al 7% delle armi vendute di fabbricazione russa. Attenzione: per impossibilità di accesso a dati certi, il SIPRI non prende in considerazione la vendita di armi 'Made in China', in fortissima crescita sia sul mercato nazionale (la spesa militare cinese è triplicata tra il 2002 il 2016) che internazionale (le aziende Aviv – aeronautica – e Norinco – sistemi terrestri – potrebbero rientrare nella Top Ten).
Made in Italy
Il dato su Leonardo e sull'industria militare italiana meritano un approfondimento. Il fatturato 2016 dell'ex Finmeccanica, riportato dal SIPRI in calo dell'8% rispetto all'anno precedente, va letto assieme al boom delle commesse 2016 (20 miliardi di euro, più 61% rispetto al 2015) dovuto principalmente ai 28 cacciabombardieri Eurofighter ordinati in quell'anno dal Kuwait (solo questi rappresentano 4 miliardi di fatturato in più). Anche la percentuale di armi 'Made in Italy' vendute nel 2016 (3%) è un dato che va letto in combinato con quello del formidabile incremento delle commesse internazionali ricevute in quello stesso anno dalle aziende militari italiane (14,6 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2015, un valore quasi sestuplicato rispetto al 2014). E qui, al di là del dato economico – già di per sé notevole – c'è quello politico: i principali clienti dell'export militare italiano sono diventati i governi nordafricani e mediorientali (60% delle commesse totali 2016 per un valore di 8,6 miliardi, contro lo scarso miliardo dei due anni precedenti), compresi Paesi in guerra verso i quali la legge italiana (la 185 del 1990) vieta ogni fornitura. In particolare, l'Arabia Saudita (sesto principale cliente italiano), cui l'azienda italiana RWM Italia di Domusnovas, in Sardegna, ha venduto tonnellate di bombe aeree, impiegate nel sanguinoso conflitto in Yemen anche su obiettivi civili, come denunciato dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Tra gli altri clienti spiccano altri Stati in guerra permanente come Iraq e Turchia.