Un mondo vessato da guerre e odio, violenze e paure: come liberare l'umanità? Viaggio in percorsi nonviolenti: da Gandhi a Martin Luter King, da Hanna Arendt a papa Francesco.
Sono passati appena cinquant'anni dal sogno strozzato nel sangue di Martin Luther King jr. Poche ore prima dell'assassinio (4 aprile 1968) il leader della lotta nonviolenta contro la segregazione razziale e per i diritti degli afroamericani aveva detto:
"Mi piacerebbe vivere una lunga vita. Ma non me ne preoccupo ora. Voglio solo fare la volontà di Dio, che mi ha permesso di salire sulla montagna. E ho guardato oltre. E ho visto la terra promessa". Il sogno di Luther King era il sogno degli schiavi neri vessati da tanta violenza. Ma era pure il sogno della città della pace, della critica radicale alla guerra (erano gli anni in cui l'America si era impantanata nella feroce guerra in Vietnam), della fine di tutte le violenze dell'uomo sull'uomo. Ed è paradossale che nei giorni in cui l'America ricorda Luther King e la sua nipotina di nove anni sale sul palco della più grande manifestazione pacifista dai tempi della marcia di Washington del 1963 urlando che anche lei ha un sogno, ossia che non ci siano più armi nel mondo, ecco proprio in quei giorni l'America di Trump decida di lanciare i suoi missili contro la Siria riproiettando nel mondo le ombre lunghe della guerra fredda. Ma questo paradosso della violenza che sembra non avere mai fine, questo sogno che si fa incubo e questo incubo che si fa sogno, questa dialettica infinita fra Eros e Thanatos, fra l'amore unitivo e solidale e il gusto per il massacro da dove deriva? Chi ha cercato di definirne i risvolti e di argomentarne i principi? Hannah Arendt ha provato, nel suo saggio Sulla violenza, a farci capire che la violenza ha sempre avuto un ruolo preponderante nel mondo degli affari umani. Quasi che nella riflessione culturale (filosofica, antropologica, giuridica, politica, economica e perfino scientifica) la violenza – vuoi come "guerra", vuoi come soluzione di forza per distruggere il nemico, vuoi come reazione a un'ingiustizia subita, vuoi come groviglio di pulsioni che sedimentano gli impulsi del nostro Ego – è sempre stata vista come un elemento connaturato alla lotta di potere, al dominio, alla vittoria politica, economica o all'affermazione di un gruppo di interesse contro un altro. Come non ricordare il motto di Carl von Clausewitz per cui "la guerra altro non è che la continuazione della politica con altri mezzi", oppure Carl Schmitt per cui la politica non è che il terreno di scontro fra amico-nemico o Friederich Engels che definiva la violenza come "l'acceleratore dello sviluppo economico".
Nella logica del potere, la forza esplicita o implicita è sempre stata uno degli elementi fondativi dell'idea e della prassi della politica. Una violenza, si badi bene, che passa trasversalmente lungo tutto il pensiero moderno e che fa parte anche della retorica comunista, "non marxista" (Mao Zedong: "Il potere nasce dalla canna del fucile")
La guerra
Perfino Sartre, nell'introduzione al libro di Frantz Fanon, I dannati della terra, prevede il riscatto dei "dannati" attraverso la "furia pazza" dell'insurrezione armata. La violenza reattiva dei colonizzati è, per Fanon, la forza che rende uomini e rende liberi: "La violenza – afferma Sartre – è come la lancia di Achille. Può guarire le ferite che ha inflitto. La violenza non è che la più flagrante lotta per il potere". E il potere rappresenta "il dominio degli uomini sugli uomini, basato su mezzi di una violenza legittima, o quantomeno ritenuta legittima" (Max Weber). In questo contesto "la guerra – sosteneva ancora il politologo francese Bertrand de Jouvenel (1903-1987) nel suo libro sulla sovranità (De la souveraineté) – a chi osserva l'avvicendarsi delle epoche si presenta come un'attività degli Stati che fa parte della loro essenza". "La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per far scomparire il potere. Questo implica che non è corretto pensare all'opposto di violenza in termini di nonviolenza; parlare di potere nonviolento è una ridondanza. La violenza può distruggere il potere; è assolutamente incapace di crearlo" (H. Arendt). Niente è più terribile, affascinante, travolgente come il bisogno umano di aggredire, odiare e spesso uccidere. L'essere umano è abitato da numerosi demoni, che spesso di notte si risvegliano negli incubi. E l'incubo, a differenza del sogno che normalizza e rielabora le immagini della psiche, è una patologia, perché supera la soglia di raffigurazione, di accettazione, di comprensione e di integrazione dei contenuti psichici e vitali. "Or chi sei tu che usurpi quest'ora della notte?" chiede Orazio allo spettro nell'Amleto, famosa tragedia di Shakespeare. Lo spettro dell'Altro, che improvvisamente irrompe sulla scena, abita la notte disseminata di incubi e solleva i fantasmi della vendetta. Così, quando l'incubo si separa dal sogno, ecco che incombe la feroce violenza. Allora un giorno un uomo guardò per la prima volta suo fratello e anziché vedere il fratello vide un altro. Vide la diversità mai più integrabile, distante, diversa, aliena. E l'incubo diurno armò la mano di Caino contro Abele.
Odio e paura vanno di pari passo. Odiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura a causa dell'odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta: "Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare – spiega Bauman – per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità sperando così di sentirci meglio, ma affinché questa operazione riesca, essa deve svolgersi celando tutte le tracce di una vendetta personale". L'odio si alimenta, scorre come un fiume in piena, ingigantisce il suo corso coinvolgendo i miei simili che invocano la giustizia contro l'altro. Abbiamo bisogno di scoprire e smascherare quel qualcuno perché abbiamo bisogno di un bersaglio su cui scaricare la rabbia repressa. Il meccanismo ci è stato descritto in maniera molto articolata da René Girard in La violenza e il sacro, li dove sviluppa la tesi del capro espiatorio (lui lo inerisce in un discorso mitico-religioso) ossia la paura individuale e poi collettiva come motore dell'azione violenta attraverso una concatenazione di istinti paranoici e aggressivi che, in forma mimetica, aizzano la folla contro la vittima predestinata al sacrificio. Tolta di torno la vittima, si ristabilisce, momentaneamente, la pace sociale per poi riprendere l'individuazione di una nuova vittima da sacrificare. Tutta questa foga di istintualità violenta e aggressiva trova il suo sfogo oggi nel web dove le pulsioni più becere costruiscono il loro muro e individuano il capro espiatorio virtuale. Lo schermo diventa un fronte di guerra. Rappresenta una barriera. Ci si nasconde. si è un nome fra tanti nomi, Improvvisamente parte la pallottola della denigrazione, della provocazione, la minaccia e la disumanizzazione dell'altro. Il tiro arma altri polpastrelli pronti a replicare come un effetto domino. La vittima è in gabbia. Se prova a replicare è finita. Tutta la furia si condensa in una sequela di improperi e di cattiverie. Ogni tanto qualcuno prova a rompere la catena riportando la discussione nell'ambito dei contenuti e del tema proposto dall'autore. Ma anche lui viene schiacciato dalla guerra dell'odio, dalla macchina del fango, dalla banalizzazione di un'isteria che non ammette nessuna autocritica o presa di coscienza di una complessità del ragionare. Non c'è nulla da fare. La guerra è oramai avanzata ed è un'offensiva continua. L'allarme sulla violenza diffusa nei web e nei social media è stata stigmatizzata dallo stesso papa Francesco quando ha richiamato l'attenzione sul carattere demoniaco delle liti via web: "Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. È significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all'ottavo: ‘Non dire falsa testimonianza' e si distrugga l'immagine altrui senza pietà".
Ma i social media sono pure il veicolo più putrido e contagioso del razzismo, che si fa largo in forme sempre più ottuse: "Il neo-razzista predica il respingimento, plaude ai rimpatri. Equipara l'immigrazione a un'invasione. Sostiene che i migranti sono sospetti, hanno malattie, rubano il lavoro, costano troppo (…) Asseconda teorie complottiste parlando subdolamente di ‘deportazione schiavista' come se i migranti fossero incapaci di intendere e volere, come se fossero non umani" (Donatella Di Cesare). Se è vero che la violenza ha sempre fatto parte degli affari umani, come ci ricorda la Arendt, e se è vero che la vita è impossibile senza un certo grado di violenza, come direbbe Gandhi, "ciò che dobbiamo sforzarci di fare è limitare questa violenza per quanto possibile (…). Dunque, chi crede nell'ahimsa deve scegliere delle occupazioni che implichino il minor grado di violenza possibile (…). Una occupazione nonviolenta è un'occupazione che sia fondamentalmente libera dalla violenza e che non implichi lo sfruttamento e l'invidia nei confronti degli altri" (Gandhi, Harijan, 1 settembre 1940).