Approvata a gennaio una nuova missione in Niger.
Con obiettivi poco chiari, senza autorizzazione del governo locale e in un contesto geopolitico complesso. Cooperazione o controllo militare?
Un pasticciaccio brutto quello che si è sviluppato intorno alla decisione votata dal Parlamento, a gennaio scorso, di mandare 150 militari italiani in Niger. Una missione che segna un importante spostamento di asse delle priorità strategiche, militari e della cooperazione italiana nel Sahel, un’area chiave per controllare i flussi migratori e fronte di guerra contro formazioni jihadiste. Da mesi annunciata, dapprima come missione armata di supporto ai contingenti francesi e americani che controllano le aree “calde” del nord Niger e della frontiera sud della Libia, e poi ridimensionata a missione di addestramento per le forze di sicurezza nigerine, la missione si inserisce nel quadro di una complessa rete di iniziative militari e di cooperazione ONU, europee e del gruppo del G-5 Sahel. Già cinque anni fa, quando la Francia decise di lanciare l’Operazione “Serval” in Mali per contrastare la presenza di AQIM (Al Qaeda in Mali), in Italia si parlò di una partecipazione o supporto diretto, poi limitato alla messa a disposizione di due C-130 alla missione francese. Alla missione puramente “combat” francese, ora ridenominata “Barkhane”, si affiancò poi la missione di stabilizzazione ONU MINUSMA alla quale l’Italia dà un contributo in uomini e mezzi, sostegno assicurato anche alla missione UE di addestramento EUTM. Oltre che alla EUCAP Niger e EUCAP Mali.
Già in quel caso, la contiguità di forze armate internazionali a una missione armata di combattimento, per di più di una potenza ex-coloniale, aveva dato adito a forti preoccupazioni per la sicurezza dei contingenti che, agli occhi delle formazioni jihadiste, sarebbero state considerate come truppe di occupazione. La presenza in Mali segnò così l’entrata in uno scacchiere reso, poi, ancor più strategico, vista l’instabilità in Libia e la scelta di intervenire per “esternalizzare” il controllo delle frontiere e ridurre così i flussi migratori attraverso l’Africa sub-sahariana. Insomma una strategia a doppia lama, nel deserto attraverso la presenza diretta di addestratori e mezzi a sostegno delle forze armate nigerine, e poi attraverso la formazione e il subappalto del controllo in mare al largo della Libia alla guardia costiera libica.
Di andare in Niger si parlava già nel maggio scorso quando venne inviato dal ministero della Difesa un “team” sul campo per verificare le condizioni logistiche per una missione italiana. Fu, però, al Vertice convocato dal presidente francese Macron a Celle Saint Claude che si decise di creare una forza europea per un’operazione euro-africana fatta da contingenti tedeschi, italiani, spagnoli e belgi per aumentare sensibilmente la presenza militare, politica e finanziaria nei Paesi del G-5 Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania), tutti rappresentati ai più alti livelli al vertice al quale partecipò anche il premier Gentiloni. Nel settembre 2017 l’Italia aveva già firmato un accordo di cooperazione nel settore della difesa, per poi aprire a gennaio 2018 l’ambasciata italiana a Niamey, la prima nel Sahel. Allora il ministro Alfano aveva ribadito l’importanza strategica del Niger e del Sahel annunciando lo stanziamento del 40% dei fondi di cooperazione italiana per l’Africa solo per quel Paese. Forse per rendere più accettabile la presenza militare italiana?
È lecito chiederselo, vista la polemica innescata dalle dichiarazioni di alcuni alti esponenti del governo nigerino, e riprese dalla stampa francese il 31 gennaio scorso, secondo le quali il governo nigerino non sarebbe mai stato informato o consultato ufficialmente dall’Italia, e avrebbe dichiarato di non essere d’accordo con la missione. A quella notizia la Farnesina risposte piccata, definendola “una patacca” montata dalla Francia che avrebbe preferito che l’Italia inviasse militari in Mali, confermando che l’invio delle truppe era stato ufficialmente richiesto dal governo nigerino.
Una decina di giorni dopo la “querelle” il ministro Alfano ha dovuto dichiarare: che “L’l’Italia attende il via libera del Niger dopo l’autorizzazione della missione da parte del Parlamento” convocato di fretta e furia a Camere ormai sciolte per approvare il decreto missioni. Sempre nelle parole del ministro: “Nel momento in cui avremo l’autorizzazione di Niamey ci gioveremo di quest’autorizzazione per fare ogni azione che sia richiesta dal governo nigerino che rispetti profondamente la sovranità nigerina, e che sia da effettuare con il consenso del governo nigerino”.
E allora il Parlamento ha approvato una missione che non è stata ancora autorizzata dai nigerini? O, se effettivamente da essi richiesta, che non è condivisa dal partner europeo principale ossia la Francia? Un dettaglio non di poco conto se si considera che la missione europea in Sahel viene considerata un importante banco di prova per la capacità europea di intervenire con proprie forze in scenari di tensione e quindi per la possibilità di imperniare intorno alla difesa europea il rilancio del progetto politico dell’Unione. Fatto sta che se prima si parlava di un contingente robusto da mandare a presidiare Madama, chiuso in un fortino al confine con la Libia, ora si tratterebbe di 120 soldati a rotazione per un massimo di 450 unità, con una presenza media di 250 soldati con 130 mezzi, da dislocare nei compounddella missione statunitense ACOTA (Africa Contingency Operations training and Assistance). Il che rappresenterebbe un ulteriore rischio vista la generale avversità alla presenza di truppe francesi e statunitensi.
Esiste, infatti, nella popolazione nigerina – e anche delle forze armate – una fortissima ostilità verso la presenza militare straniera. Sono giustamente più preoccupati del miglioramento delle loro condizioni materiali e preferiscono affidare ai militari nigeriani la loro sicurezza.
Un “risentimento come sottolineato in uno studio dedicato (Militaires occidentaux au Niger: présence contestée, utilité à démontrer di Georges Berghezan 7 novembre 2016; Militari occidentali in Niger, presenza contestata, utilità tutta da dimostrare: https://mondafrique.com/militaires-occidentaux-desavoues-) verso la presenza militare occidentale dovrebbe egualmente allarmare le autorità francesi e statunitensi sia per quanto concerne la sicurezza del proprio personale che per la continuità della loro cooperazione con il Paese”. E che dovrebbe preoccupare anche le autorità italiane, per quanto concerne la sicurezza dei soldati e per la tenuta della cooperazione verso quel Paese. Cooperazione che diventa strumento ancillare del controllo militare del territorio e delle frontiere. Dal Fondo Africa provengono, infatti, 50 milioni di euro per il rafforzamento delle frontiere, 15 milioni per l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni per rimpatri volontari e 31 milioni per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali. Vale la pena rammentare a tal riguardo un saggio assai interessante, pubblicato qualche mese fa, nel quale venivano formulate una serie di raccomandazioni per una gestione “civile” e “politica” della situazione nel Paese, da privilegiare rispetto all’opzione militare.
Secondo il documento stilato dal Centro Clingendael e intitolato: “Sustainable Migration Management in the Sahel” (Novembre 2017 – www.clingendael.org/publication/sustainable-migration-management-sahel): “Le politiche migratorie dell’Unione Europea sono fortemente centrate su misure di sicurezza, come modalità necessaria per bloccare le reti di trafficanti ritenute responsabili delle migrazioni irregolari. In realtà quelle reti fanno parte di economie politiche che non possono essere affrontare senza tener conto della misura nella quale le autorità statali sono coinvolte e/o capaci di controllare le migrazioni irregolari. La mancata considerazione di queste realtà locali, nella migliore delle ipotesi, sarà causa di politiche inefficaci e inefficienti, nella peggiore di un rafforzamento delle cause che sono alla base delle migrazioni”.