Diritti
Qualifica Autore: Coordinamento per i Diritti Economici, Sociali e Culturali di Amnesty International Italia

Lo sfruttamento del lavoro minorile nei nostri prodotti elettronici.
Come si può morire di lavoro e per il nostro benessere.
Quando i diritti sono un’optional.

 

Passo praticamente 24 ore nei tunnel. Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, il mio padre adottivo, invece, ha deciso di mandarmi nelle miniere”. A parlare è Paul, un ragazzino di 15 anni della Repubblica Democratica del Congo (RDC), intervistato dai ricercatori di Amnesty International e Afrewatch nell’ambito di ricerche condotte sulle condizioni di lavoro disumane di migliaia di donne e bambini nelle miniere di cobalto del Paese. “C’è molta polvere, è molto facile prendersi il raffreddore e abbiamo dolori dappertutto” aggiunge Dany, un altro ragazzino-minatore. Il cobalto ha un ruolo fondamentale nelle soluzioni legate all’energia sostenibile: è, infatti, una delle componenti principali delle batterie ricaricabili presenti nella maggior parte dei device elettronici ed è impiegato anche per la realizzazione di parchi eolici, impianti per la produzione di energia solare e batterie per le autovetture elettriche; tuttavia, la richiesta di questo minerale rischia di causare anche violazioni dei diritti umani.

Nel rapporto “This is what we die for”, pubblicato da Amnesty International nel gennaio 2016, viene denunciato come nel sud della RDC vi siano circa 150.000 minatori che estraggono a mani nude, impiegati nelle miniere artigianali di cobalto, e di come tra questi vi siano almeno 40.000 bambini, spesso costretti a lavorare sin dall’età di 7 anni, dal momento che i loro genitori non dispongono di un lavoro retribuito e non possono permettersi di pagare le rette scolastiche. I bambini intervistati dai ricercatori di Amnesty International descrivono la pesantezza del lavoro a cui sono costretti, spesso senza neppure adottare i più elementari strumenti di protezione quali guanti, tute da lavoro o mascherine per il volto, rimanendo fino a dodici ore al giorno in miniera e portando pesi insostenibili per guadagnare un salario appena sufficiente a mantenersi in vita. A ciò si aggiunga che la continua inalazione di polvere di cobalto provoca l’insorgenza di problemi respiratori, asma, fiato corto e la compromissione della funzionalità polmonare, fino ad arrivare a malattie anche fatali, mentre il contatto continuo della pelle con il cobalto può portare all’insorgenza di dermatiti e altre malattie croniche affini.

Il rapporto ripercorre la filiera del cobalto, dall’estrazione nelle miniere per raggiungere, dopo numerosi passaggi, i negozi di elettronica di tutto il mondo, scoprendo che i bambini-minatori, dopo aver estratto il minerale, averlo lavato e selezionato, lo vendono a commercianti locali, i quali, a loro volta, rivendono il minerale a intermediari più grandi, che lavorano il minerale e lo esportano. 

Una delle principali aziende al centro di questo commercio è la Congo Dongfang Mining International (CDM), una società controllata al 100% dal gruppo cinese Zhejang Huayou Cobalt Company Ltd (Huayou Cobalt), che effettua le prime lavorazioni sul minerale per poi esportarlo in Cina, dove il minerale viene venduto ai produttori di componenti per le batterie dell’Estremo Oriente. A loro volta queste aziende vendono i loro componenti ai produttori di batterie ricaricabili, che vengono infine vendute ai più conosciuti marchi di elettronica mondiali.

I ricercatori di Amnesty International hanno identificato i produttori di componenti per batterie che acquistano il minerale dalla Huayou Cobalt e mappato le loro principali aziende-clienti; hanno quindi scritto alla Huayou Cobalt e ad altre 28 grandi multinazionali dell’elettronica per sensibilizzarle sul tema. Tra il ventaglio di aziende coinvolte vi sono nominativi come Apple, Dell, HP (ex Hewlett-Packard Company), HuaweiLenovo (Motorola), LG, Microsoft, Samsung, Sony, Tesla e Vodafone, nonché produttori di automobili come Daimler, Volkswagen, BMW, RenaultFiat-ChrislerGeneral Motors, oltre ad alcune grandi aziende cinesi produttrici di batterie per telefoni cellulari. Nelle comunicazioni a tali multinazionali, Amnesty International ha rimandando a quanto statuito dalle Linee Guida dell’ONU su Imprese e Diritti Umani circa la responsabilità, da parte delle imprese, di rispettare i diritti umani nelle loro attività in tutto il mondo, ivi incluse le proprie catene di fornitura. Ciò richiede, tra le altre cose, che le aziende conducano delle due diligence per “identificare, prevenire, mitigare e rendere conto dei rischi d’impatto della propria attività sui diritti umani”. Indicazioni pratiche su come tali due diligence debbano essere condotte con riferimento alla catena di fornitura sono state, inoltre, fornite da parte dell’OCSE, che individua un processo a cinque passi che dovrebbe essere seguito da tutte le aziende che appartengono alla catena di fornitura dei minerali. Le aziende interpellate nel 2015 da Amnesty International hanno fatto riferimento a generici codici di condotta e policy interne che richiedono ai fornitori di rispettare i diritti umani e di non sfruttare il lavoro minorile; tuttavia, esse non sono state in grado di fornire dettagli circa specifiche indagini e verifiche condotte per identificare e affrontare eventuali fenomeni di sfruttamento del lavoro minorile nelle loro filiere di fornitura.

A distanza di due anni, il 15 novembre scorso, Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto, intitolato È tempo di ricaricare”, nel quale esamina se e come, dal gennaio 2016, le grandi aziende, interpellate in occasione della stesura del precedente rapporto, abbiano sviluppato una maggior consapevolezza circa le modalità di estrazione del cobalto presente nelle batterie elettriche di cui si riforniscono. Le aziende sono state valutate sulla base di cinque criteri derivanti dalle citate linee guida dell’OCSE; per ogni criterio, è espresso un giudizio che va da “nessuna azione” ad “azione adeguata”. Ne emerge un panorama composito: se alcune di tali aziende hanno fatto passi avanti, altre non hanno neppure provato a indagare sulla propria catena di fornitura. Inoltre, nessuna delle 29 aziende citate nel rapporto ha assunto azioni “adeguate” al rispetto degli standard internazionali. 

Tra le aziende più virtuose si è collocata Apple, che nel corso del 2017 è stata la prima azienda a pubblicare la lista dei propri fornitori di cobalto; la società, tuttavia, così come anche Samsung, pur avendo identificato le aziende che fondono il cobalto, non ha valutato i rischi di violazione dei diritti umani posti dall’attività di queste ultime. Dell Hp hanno fatto qualche piccolo passo avanti, iniziando a indagare sui fornitori legati a Huayou Cobalt, e hanno adottato politiche più rigorose per individuare i potenziali rischi di violazione dei diritti umani. 

Altre grandi aziende, invece, hanno fatto ben pochi progressi: Microsoft e Vodafone, per esempio, non hanno ancora messo a disposizione informazioni sui loro fornitori, come le aziende che fondono e raffinano il cobalto, mentre Lenovo ha svolto azioni veramente marginali. Complessivamente, dal rapporto emerge una drammatica mancanza di trasparenza: le aziende non rendono note le loro valutazioni sui rischi di violazione dei diritti umani nella catena dei fornitori né sulle eventuali due diligence effettuate da questi ultimi. 

Quanto al settore automotive, tra quelli esaminati, BMW è il produttore più attento, dal momento che ha introdotto alcuni miglioramenti nelle politiche e nelle prassi relative al cobalto, ma non ha ancora reso noti i nomi delle aziende che fondono e raffinano il cobalto né ha intenzione di rivelare quali valutazioni siano state effettuate sulle prassi di due diligence di tali aziende. Renault, Daimler, Volkswagen e Fiat-Chrysler, invece, non hanno soddisfatto neanche i requisiti minimi di trasparenza.

Le aziende hanno la responsabilità di identificare, prevenire, risolvere e rendere conto delle violazioni dei diritti umani lungo le proprie catene di fornitura; la pubblicazione delle valutazioni sui rischi di violazione dei diritti umani nell’ambito di queste ultime resta uno sviluppo fondamentale che nessuna delle aziende interpellate ha ancora intrapreso. Laddove un’azienda abbia, anche indirettamente, beneficiato del lavoro di minori o di adulti in condizioni intollerabili, deve rimediare ai danni cagionati: ciò richiede di agire insieme ai propri fornitori e al governo locale per impedire le peggiori forme di lavoro minorile e sostenere la reintegrazione dei minori nella scuola, prendersi cura della loro salute e provvedere ai loro bisogni psicologici.


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