Una evocativa quanto attuale lettera a Saul di don Tonino Bello, “La lancia e la cetra”,
ci parla del potere, della smania di eternità che non ci appartiene e della leggerezza nonviolenta della cetra e della creatività.
Eccone uno stralcio.
Caro Saul, nonostante tutto, mi sei simpatico per la tua rozza autenticità di contadino. Tu non eri cattivo: eri solo ingenuo. Capivi che il potere ti aveva logorato, che non avevi più nulla da dire, che alla lunga non si può fare politica senza genio. Ma almeno hai avuto l’onestà di non truccarti dietro apparenti sicurezze. Hai mostrato subito la corda. In fondo, non era Davide a farti paura. Era la sua cetra: simbolo della novità, del cambiamento, della fantasia. Hai scagliato più volte la lancia contro il tuo giovane rivale: ma non era lui che volevi ammazzare, era la sua cetra che volevi distruggere. Quel dannato strumento, più degli eserciti filistei, ti sgomentava fino alla follia: ed era impossibile frantumarlo con gli emblemi militari della violenza.
Il potere logora chi ce l’ha. Logora, perché non è fatto per sfidare il tempo. L’arte sfida il tempo: la poesia, la musica, la cetra, appunto. Ma il potere no: i regimi, i governi, la lancia, insomma, sono effimeri. Si usurano presto. Non sono generi a lunga conservazione. Nascono con l’ipoteca incorporata della fine. Coprono solo un segmento di tempo: quanto basta per offrire un servizio. Ma terminato l’offertorio, si sfibrano anche i titolari che si ostinano a mantenerli in vita con l’ossigeno,.
Un potere, insomma, che si candida a sogni di eternità, sfocia inesorabilmente nella follia.
In fondo, il tuo errore non è stato quello di aver esercitato un potere, ma quello di non averne accettata la provvisorietà. Appena avvertita l’irruzione sul firmamento politico di un nuovo astro che ti surclassava per genio e per freschezza, avresti dovuto abbandonare subito la corte e raggiungere il cortile: quello di casa tua. Alle prime note dell’arpa, cogliendo i segni dei tempi, avresti dovuto capire l’antifona del tuo ultimo salmo di gloria, e guadagnare in silenzio la pace della tua campagna. Il mestiere non ti mancava, e di fame non saresti morto. Invece, no! Eri persuaso che, dopo di te, non poteva esserci che il diluvio. Sicché, con la lancia perennemente in pugno, sei rimasto a proteggere i fantasmi del tuo antico prestigio. E hai fatto quella fine infelice.
Grazie, comunque, perché hai accettato di divenire monito ed emblema per quanti nella storia dimenticano che solo Dio ha un potere che non tramonta mai. Anche se, purtroppo, la tua lezione così paradigmatica non è servita a gran che. Il demone del potere, infatti, ossessiona ancora oggi una moltitudine di gente.
O Dio, finché ci si batte per raggiungere il potere, si rimane all’interno della dialettica di ogni crescita umana: si è invasati, per così dire, da un demone buono. Oltretutto, in questa fase, ci si può sempre consolare che si è spinti dal bisogno di rendere un servizio agli altri.
La pervasività nasce, invece, non quando ci si batte per ottenere il potere, ma quando si lotta disperatamente per conservarlo. Allora, subentra il demone maligno. Compare lo stesso “sovrumano spirito cattivo”, che un giorno si impadronì di te. Affiora il genio del male, che introduce nell’uomo di potere la logica della lancia, cioè la logica della guerra. Perché chi vince una guerra pensa che sia l’ultima, la definitiva, l’assoluta. Così chi conquista il potere: si arroga pretese di stabilità imperitura. E stenta persino a capire che un tiranno, per quanto sanguinario, non potrà mai tagliare la testa del suo successore.
Tu, queste cose non le hai capite. Ma, poiché hai pagato l’ascolto della cetra con una schizofrenia che non hai voluto mascherare, di fronte alla tua tragedia mi inchino lo stesso.
Non mi inchino, invece, di fronte alla commedia di chi oggi, con la lancia in pugno e con i nervi apparentemente saldi, esibendo arroganti sicurezze, camuffa il suo delirio e finge di non udire coloro che, già da tempo, hanno intonato i salteri della novità.
Mosaico di pace, febbraio 1992