Chiara Valentini
C’è qualcosa di nuovo e di particolarmente importante nei due premi Nobel per la pace assegnati quest’anno, qualcosa che non consente di archiviarli distrattamente. Anche se siamo sempre più assediati da valanghe di polemiche e di notizie spesso inutili, non abbiamo il diritto di dimenticare i volti e le storie dei due vincitori. Lei, Nadia Murad, 25 anni, nata e cresciuta in un villaggio nell’ovest dell’Iraq, rapita giovanissima da militanti dell’Isis, come tante coetanee era stata ridotta in schiavitù, sottoposta a stupri continui, venduta e ricomprata al mercato degli schiavi di Mosul.
Quasi per miracolo era riuscita a fuggire, ma si era ritrovata sola. Tutta la sua famiglia era stata uccisa dall’Isis. Con grande coraggio e con vari aiuti, Nadia era andata in giro anche all’estero, a denunciare gli orrori di cui era stata vittima, come il suo popolo yazida, di cui è diventata presto il simbolo.
L’altro vincitore di quest’anno è Denis Mukwege, un ginecologo di 63 anni, di origine congolese, che ha passato gli ultimi venti anni nel suo paese natale, indicato come “capitale mondiale degli stupri”, a curare, nell’ospedale che lui stesso ha fondato, decine di migliaia di donne torturate e date in premio ai miliziani delle varie guerriglie interne. Non a caso il dott. Mukwege è considerato uno specialista di fama mondiale e soprannominato “il medico che ripara le donne”. A tutti e due, nelle motivazioni del Nobel, si è riconosciuto che “hanno messo la loro sicurezza personale a rischio…, hanno aiutato a dare grandissima visibilità alla violenza sessuale in tempo di guerra, così che i responsabili possano essere giudicati per le loro azioni”.
Motivazione nobile, ma c’è qualcosa di più. Fra i grandi meriti di Nadia Murad e Denis Mukwege c’è quello di aver riaperto il capitolo dei cosiddetti stupri etnici. Ai tempi della dissoluzione della ex Jugoslavia era venuto alla luce qualcosa che era sembrato ai limiti dell’incredibile: l’ordine arrivato dall’alto ai militari serbi di stuprare le donne della Bosnia, le “donne dei nemici”. All’origine c’era la convinzione – identificando l’onore sessuale femminile con quello della comunità di appartenenza – che in quel modo si sarebbe terremotata l’identità dell’etnia rivale. Ma le proteste di un’opinione pubblica scossa e indignata e dei movimenti delle donne di tutto il mondo avevano portato alla nascita di tribunali speciali per giudicare questi atti, che per la prima volta venivano identificati come “crimini contro l’umanità”.
Sembrava un grande cambiamento, una vittoria della giustizia. Ma durò a lungo. In tempi più recenti lo scenario è cambiato. La situazione internazionale con nuovi conflitti, la destabilizzazione del Medio Oriente e di alcune parti dell’Africa, l’avanzare dell’estremismo islamista, hanno peggiorato le cose. La violenza sessuale viene usata in diversi paesi come arma di repressione dei movimenti di opposizione. Avanza la tendenza a considerare gli stupri di guerra come crimini minori. E come denunciano documenti internazionali (ad es., la Dichiarazione d’Intenti per porre fine alla violenza sessuale nei conflitti armati), la stragrande maggioranza delle vittime non ottiene giustizia. A questo si aggiungono gli stupri di cui sempre più spesso sono vittime le donne migranti, in quella guerra non dichiarata che devono sostenere nei lunghi viaggi nel deserto e per mare per arrivare fino ai nostri paesi.
Mi sembra che ce ne sia abbastanza per convincerci di quanto sia importante sostenere movimenti d’opinione come quelli nati attorno ai due premi Nobel, rafforzare la cultura dei diritti umani a cominciare da quelli delle donne, riprendere la parola con forza. Oggi è più difficile rispetto agli anni Novanta: si deve saperlo. Ma non è certo impossibile. Anche la cultura cattolica può dare, e già lo sta facendo, un forte sostegno. Personaggi come Nadia Murad e Denis Mukwege possono aiutarci a ritrovare la strada di una politica fortemente solidale da portare avanti insieme.