Il mito che ha fatto “grande” la guerra comincia prima del conflitto e continua anche dopo. Ancora oggi…
Luca Kocci
“La grande guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro paese, perché è stato nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono ‘fatti’ gli italiani”. Così, alla vigilia delle celebrazioni per il centenario della Prima guerra mondiale (1915-2015), l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio e presidente del comitato per la commemorazione, Paolo Peluffo, presentava la mostra “Verso la grande guerra” al Vittoriano di Roma. Segno eloquente che il “mito della grande guerra”, nonostante un cinquantennio di storiografia critica ne abbia messo in discussione l’epopea eroica, ancora resiste. La costruzione del mito comincia prima ancora della guerra, quando la propaganda interventista si mette in moto per convincere gli italiani, in maggioranza contrari alla partecipazione al conflitto, che la guerra contro Austria e Germania è cosa buona e giusta.
Il ruolo degli intellettuali
Una folta schiera di intellettuali dà fuoco alle polveri, su riviste come La Voce e Lacerba. Ad esempio Giuseppe Prezzolini, nel 1914: “La neutralità è stata eccellente ma come transizione e preparazione alla guerra. […] Si tratta di passare il nostro esame. Fummo, finora, una nazione aspirante al grado di grande. Oggi non si tratta neppur di questo ma di ben altro. Si tratta di sapere se siamo una nazione”. O Giovanni Papini, nello stesso anno: “Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati […]. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura”.
Capofila dell'intelligencija interventista è Gabriele D’Annunzio. Il suo tour bellicista nelle città d’Italia culmina a Quarto, il 5 maggio 1915, per l’inaugurazione del monumento ai Mille di Garibaldi: “Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati” esorta D’Annunzio, trasformando le beatitudini evangeliche in un appello alla guerra. “Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia”.
Non si tratta solo di suggestione letterarie, bensì di interessi materiali. Quelli della grande industria italiana (Ansaldo, Breda, Fiat, Ilva…) la quale, dopo un iniziale neutralismo che le consente di vendere le giacenze della crisi di sovrapproduzione del 1913-14 su entrambi i fronti (la Breda di Sesto San Giovanni vende armi e munizioni leggere all'Austria e alla Serbia, la Tosi di Milano motori alla Germania e all'Inghilterra), all'inizio del 1915 si converte all'interventismo perché non trova più sbocchi all'estero e ha bisogno di commesse nazionali. Allora mobilita e finanzia i giornali – Corriere della Sera, Il Secolo XIX, Il Messaggero, Il resto del carlino, La Nazione – che iniziano una decisa campagna interventista. A partire dal Popolo d’Italia (foraggiato da Ansaldo, Fiat, Ilva e dalla Francia) fondato da Benito Mussolini, appena espulso dal Partito socialista, che ci aveva visto lungo e aveva intuito che dalle trincee della grande guerra più che gli italiani poteva nascere il fascismo.
La propaganda
A guerra iniziata, oltre agli strumenti classici della propaganda (giornali, manifesti…) e della censura (rigido controllo dei pochi inviati ammessi al fronte, censura sulle lettere dei soldati dalle trincee…), si utilizzano nuove modalità.
La scuola diventa luogo di educazione alla guerra: dettati e componimenti che mirano a esaltare i combattimenti, lezioni di geografia seguendo sulle carte geografiche i movimenti del fronte e le battaglie, omaggi ai soldati morti (eroi caduti) a cui vengono dedicate aule e ritratti da omaggiare con lampade votive e fiori, lettere degli alunni inviate ai soldati al fronte oppure alle mogli e alle madri dei caduti (a cominciare dai più famosi: gli irredentisti Cesare Battisti, Damiano Chiesa e i fratelli Filzi).
Anche la Chiesa cattolica – con qualche eccezione – viene arruolata: i cappellani militari invitano i soldati all'obbedienza cieca agli ordini dei superiori e celebrano messe da campo e preghiere per la “vittoria”; si diffondono devozioni, medagliette, scapolari, immaginette di Gesù benedicente armi e soldati che incoraggiano alla guerra e assicurano una particolare protezione ai soldati (“O Gesù, benedici dal Cielo queste armi che impugniamo per la più giusta e la più santa delle guerre”); il francescano Agostino Gemelli, capitano medico e consulente del capo di Stato maggiore Cadorna, teorizza “che la guerra è divina […], che l’effusione del sangue umano per opera della guerra, nelle terribili lotte dei popoli, ha un valore speciale, per il quale esso coopera al governo divino del mondo”.
Dopo la guerra
La costruzione del mito della grande guerra prosegue anche a guerra finita, per creare, secondo un’efficace espressione coniata dallo storico Mario Isnenghi, una sorta di “consenso retroattivo alla guerra” anche da parte di chi l’aveva avversata.
La manifestazione più eclatante è quella del monumento al Milite ignoto, “convertendo” il Vittoriano di Roma, che diventa così Altare della patria: la salma di un soldato senza nome, scelta a caso da Maria Bergamas, madre di un disperso, viene portata da Aquileia (UD) a Roma su un vagone scoperto di un treno speciale e, dopo cinque giorni di lento viaggio fra ali di folla commossa che rendono omaggio al corpo del soldato anonimo, tumulata nell'Altare della patria.
L’operazione più capillare è, invece, quella dei monumenti ai caduti: oltre 12mila in tutta Italia che, oltre l’esigenza dell’elaborazione del lutto da parte di familiari e amici dei soldati morti, rispondono a finalità politiche di educazione delle masse al nazionalismo e al patriottismo e, dopo il 1922, al consolidamento del potere da parte del fascismo, con la costruzione di una vera e propria “religione della patria” fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati. Le nuove direttive sui monumenti indicano: “La concezione fascista della guerra […] ci fa glorificare, non piangere i nostri caduti, ce li fa raffigurare ritti, fieri, con la spada alta, con l’alloro nel pugno […]. Noi vogliamo che i simboli che li rappresentano ce li mostrino superbi, coi muscoli vibranti, con lo sguardo alto e consapevole”.
Parallelamente vengono distrutti quei pochi che sottolineano la brutalità della guerra, come uno a Tolentino (Mc), nel quale la statua di un mutilato privo delle braccia guarda l’anziano padre che si affatica nel lavoro dei campi, con l’epigrafe: “Possa la santità del lavoro redento/fugare e uccidere per sempre/il sanguinante spettro della guerra/per noi e per tutte le genti del mondo./Questa la speranza e la maledizione nostra/contro chi la guerra volle e risogna”.
Ai monumenti nelle piazze, il fascismo affianca la costruzione di grandi sacrari in cui raccogliere i resti dei soldati morti. L’esempio più significativo è quello di Redipuglia, dove c’era già il grande Cimitero degli invitti della III armata che viene smantellato e ricostruito nella collina di fronte, secondo la dottrina fascista, ben evidenziata dai 22 giganteschi gradoni in marmo bianco che contengono le spoglie di centomila soldati su cui è scolpito l’ossessivo “Presente”, rivolto ai morti, ma destinato ai vivi. Anche la morte diventa propaganda.