Sebbene ancora poco conosciuto, il “no” alla guerra delle donne fu molto diffuso. Frutto anche di una trasformazione sociale che il conflitto causò.
Diego Cipriani
La sua immagine è immortalata sulla moneta da due euro austriaca. È Bertha von Suttner, scrittrice e attivista pacifista, prima donna a essere insignita (nel 1905) del premio Nobel per la pace. Nonostante che sia morta un mese prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, ha lavorato molto per evitare qualsiasi conflitto tra le nazioni, sia col suo romanzo più famoso “Giù le armi!” sia fondando, nel 1891, la Società austriaca per la pace e diventando un’infaticabile anima del movimento pacifista internazionale. Ha denunciato il riarmo delle nazioni in tempo “di pace”, preparazione a ciò che poi avvenne tra il 1914 e il 1918, scontrandosi con l’opposizione dei nazionalisti, del clero e degli antisemiti.
Sei mesi prima dello scoppio della guerra, nel febbraio 1914, una donna viene arrestata per aver incitato i soldati a ribellarsi. Si chiama Rosa Luxemburg, è nata in Polonia e ha già infiammato mezza Europa con le sue idee socialiste rivoluzionarie, alle quali aggiunge il suo convinto antimilitarismo. Che le fa dichiarare “Se si aspettano che noi assassiniamo i francesi o qualche altro fratello straniero, occorrerà dir loro ‘no, in nessun caso!’”. Critica nei confronti del Movimento dei lavoratori europei per non essere riusciti a evitare la guerra, continuerà anche dopo lo scoppio del conflitto a cercare di tenere insieme le anime del movimento socialista europeo contrarie alla guerra, ritenuta un massacro operato dalla borghesia e contrario agli interessi del proletariato. Nel 1916 viene arrestata per un tentativo, fallito, di organizzare uno sciopero internazionale contro la guerra.
A finire in carcere per le sue posizioni contrarie alla guerra è anche un’altra attivista, amica della Luxemburg, la tedesca Clara Zetkin, esponente del movimento internazionale per i diritti delle donne (è lei a lanciare, nel 1911, l’idea di una “Giornata Internazionale della Donna”). Contraria alla tregua col governo tedesco che prevede l’astensione da scioperi durante il periodo del conflitto, nel 1915 organizza a Berlino una conferenza internazionale delle donne socialiste contro la guerra. La sua opposizione alla guerra le costerà l’espulsione dal partito socialista.
Pacifiste e militanti
Sono solo tre esponenti del vasto popolo di donne contrarie alla Prima guerra mondiale, che hanno interpretato un largo dissenso diffuso in tutta Europa. Questione femminile e pacifismo si sono fusi sotto forme diverse. A cominciare dai due grandi raduni di donne avvenuti nel 1915: la citata Conferenza internazionale delle donne socialiste e il Congresso internazionale delle donne all’Aja, sotto la direzione della suffragetta e pacifista olandese Aletta Jacobs per protestare contro la guerra e al quale partecipano 1.136 donne, nonostante che molte di loro si sono viste rifiutare il passaporto dai propri paesi o sono state fermate alla frontiera.
Al ritorno nel proprio paese, molte di loro vengono accusate di “antipatriottismo”, altre arrestate o strettamente sorvegliate dalla polizia.
Le donne che militano nel movimento pacifista nei vari paesi belligeranti vengono perseguitate, imprigionate e sottomesse a sorveglianza poliziesca. Come Hélène Brion, un’insegnante pacifista francese, accusata di tradimento e privata del suo lavoro di insegnante per aver distribuito pubblicazioni contro la guerra nel 1918. Al processo dichiara: “Sono nemica della guerra poiché sono femminista… Tra la guerra e il femminismo esiste una contraddizione totale”.
Ma l’opposizione delle donne alla guerra non coinvolge solo le élite dell’universo femminile (in Italia, ad esempio, si ricorda il lavoro di Linda Malnati e Carlotta Clerici nella costituzione della Lega italiana per la neutralità). Sin dal primo anno di guerra, durante il quale si capisce che la guerra non sarà breve, la protesta si tinge sempre più di rosa, man mano che il conflitto perdura e aumentano le difficoltà quotidiane che le donne, rimaste sole a reggere le sorti della famiglia, devono fronteggiare. Tra l’inverno 1916 e la successiva primavera, il ministero dell’Interno conta cinquecento manifestazioni di protesta in tutt’Italia, a stragrande partecipazione femminile (dato che gli uomini erano quasi tutti al fronte). Per citare solo un esempio, il 20 dicembre 1916 a Cavriago (Reggio Emilia) 150 donne manifestano al grido “Abbasso la guerra, vogliamo i mariti” e cercano di impedire alle operaie di una fabbrica di proiettili di andare al lavoro.
Discriminazioni
L’atteggiamento antibellico appartiene “naturalmente” alla donna che nel suo ruolo di sposa e madre si ritrova all’improvviso a sopportare il peso dell’assenza del marito e del figlio. Ma la guerra, ha scritto lo storico Piero Melograni, “accelerò difatti enormemente il processo di emancipazione delle donne, conferì ad esse maggiori responsabilità familiari e sociali, segnò per il mondo femminile un momento di transizione tra due epoche”. Basti pensare che, negli anni del conflitto, centinaia di migliaia di donne prendono il posto (in fabbrica, nei campi, negli uffici, in ditta, nei trasporti) di tanti uomini chiamati alle armi. Insomma, si delinea una nuova geografia sociale al cui fondo resta un sentimento contrario alla guerra. Anche perché, se da un lato la maggiore presenza femminile nei luoghi di lavoro tradizionalmente occupati da uomini contribuisce alla loro emancipazione, non bisogna dimenticare che la scelta di lavorare in simili posti per molte è costretta dalla necessità e si aggiunge ai “doveri della famiglia” (cura della casa, dei figli…). Per non dire della discriminazione salariale coi colleghi uomini che spesso permane.
È un fatto, comunque, che il dissenso femminile contro la guerra si manifesta più di quello dei loro compagni. A volte anche con toni violenti. Come capiterà nell’agosto 1917 a Torino, quando la mancanza di pane provoca proteste e tumulti per alcuni giorni, con una massiccia partecipazione di donne, e con scontri che lasciano sul terreno alcune decine di morti.
Insomma, l’insofferenza femminile verso la guerra accomunerà sia le donne che sono restate a lavorare nei campi, sia quelle che sono costrette a lavorare in città, sia quelle che lavorano nelle fabbriche, dando vita spesso a manifestazioni di protesta eclatanti, ma brevi ed episodiche, represse con veemenza dai “signori (uomini) della guerra”.