Il “no” alla guerra ebbe varie anime ed espressioni. Tutte represse.
Ercole Organo
In occasione del centenario della Grande guerra si è attivato il meccanismo della narrazione celebrativa, presentandola come una prova dolorosa ma necessaria per conseguire il compimento del processo risorgimentale dell’unità italiana, la costruzione di un’identità nazionale attraverso l’incontro tra soldati di tutte le regioni, la crescita e la modernizzazione dell’apparato industriale, il riconoscimento del prestigio internazionale del nostro paese.
Mire imperialistiche
Anche per l’Italia fu una guerra con un disegno imperialistico, propugnato dai gruppi nazionalisti e dichiarato alla Camera dallo stesso capo del governo, Antonio Salandra: l’Italia ambiva a mantenere un ruolo di “grande potenza”; dopo la conquista della Libia voleva consolidare la sua influenza nel Mediterraneo orientale ed estenderla nei Balcani. Un disegno condiviso anche da monarchia, militari e industriali.
Non soltanto la maggioranza delle forze politiche alla Camera (liberali giolittiani, cattolici, socialisti), ma anche la maggioranza della popolazione erano contrarie alla guerra. Ma dopo che il governo decise segretamente – firmando il Patto di Londra – l’entrata in guerra dell’Italia e mise il parlamento di fronte a una decisione immodificabile, prevalsero tra i deputati il realismo politico e tra la popolazione la rassegnazione e il dovere dell’obbedienza alle decisioni prese dalle autorità.
Prevenire il dissenso
Il 22-23 maggio 1915 il governo approvò un pacchetto di decreti per prevenire e sedare ogni tipo di opposizione: limitata la libertà di riunione, di associazione, di parola; introdotta la censura postale e sulla stampa; vietata la diffusione di notizie sulle operazioni militari difformi da quelle diramate dal Comando supremo; introdotta la prassi dell’internamento di cittadini, allontanandoli dal loro luogo di residenza. L’internamento era un provvedimento sottratto al giudizio della magistratura; il fondamento giuridico era il “sospetto” di colpevolezza, prescindendo dall'accertamento di un reato: venne perciò usato come mezzo di intimidazione, per dissuadere potenziali oppositori, e di facile repressione.
Dal canto suo il generale Luigi Cadorna, al vertice del Comando Supremo, emanò una normativa speciale all'insegna del massimo rigore e dell’implacabile durezza. Già il 24 maggio diffuse la sua prima circolare, che doveva costituire il fondamento di tutti i provvedimenti seguenti: “Regni sovrana, in tutto l’esercito una ferrea disciplina. Essa è condizione indispensabile per conseguire la vittoria”. Fu disposto che i tribunali militari adempissero un’azione improntata a “severa repressione e salutare esemplarità”, così che la pena svolgesse una funzione “ammonitrice e intimidatrice”. Ciò fu praticato con fucilazioni attuate senza processo anche per reati di lieve entità; con l’uccisione di chi indugiava a gettarsi all'assalto della trincea nemica o di chi non avanzava dopo averlo iniziato, per cui le mitragliatrici li falciavano alle spalle. Ma il massimo della ferocia fu il barbaro rituale delle decimazioni, ossia il sorteggio di soldati da fucilare per rappresaglia, anche se innocenti.
L’opposizione delle forze politiche
La posizione di neutralità espressa dai cattolici prima dell’entrata in guerra dell’Italia è stata definita “condizionata”: nel senso che erano concordi nel ritenere che, di fronte alla decisione dell’autorità legittimamente costituita, il dovere dell’obbedienza fosse indiscutibile. Soltanto il deputato cattolico Guido Miglioli, di Soresina (Cremona), votò alla Camera contro l’entrata in guerra dell’Italia. Nelle aree in cui l’influenza di Miglioli sulla popolazione contadina era forte, frequenti furono le proteste. I documenti di papa Benedetto XV contro la guerra – definita “suicidio dell’Europa civile”, “inutile strage”– furono interpretati dagli oppositori cattolici come un sostegno alla loro scelta.
Alla Camera il gruppo più coerente nel dire “no” alla guerra fu quello dei socialisti, pur avendo il partito adottato una linea prudente (“né aderire, né sabotare”) per non dare motivo al governo di accanirsi contro i suoi militanti. Ciononostante governo e apparato di polizia usarono la guerra per sopraffazioni e rivalse nei loro confronti. I socialisti italiani collaborarono con quei socialisti europei rimasti contrari alla guerra, contribuendo a elaborare e diffondere il manifesto delle Conferenze internazionali di Zimmerwald (settembre 1915) e di Kiental (aprile 1916): “L’Europa è diventata un gigantesco macello. […] Barbarie, crisi economica, reazione politica: ecco i risultati di questa guerra crudele”. Le manifestazioni popolari ebbero in molte zone i militanti socialisti come promotori. Nel gennaio 1918 furono arrestati e condannati il segretario del partito socialista e il suo vice per aver diramato circolari che spronavano gli iscritti a comportamenti “disfattisti”.
I più intransigenti oppositori furono però gli anarchici, che puntavano a uno sbocco rivoluzionario del conflitto: “Contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione”. Ma erano gruppetti contro i quali le forze dell’ordine si accanivano senza tregua, impedendo loro di ampliare il consenso.
L’opposizione della popolazione
Soltanto pochissimi testimoni seppero personalmente dire no alla chiamata alle armi, divenendo precursori dell’obiezione di coscienza. I casi finora noti ci fanno conoscere persone dalla statura morale eccezionale, mosse da ideali religiosi o laici di fratellanza universale, che hanno saputo affrontare carcere e vessazioni senza piegarsi, convinte che il“non uccidere” è il fondamento della convivenza umana.
I cittadini contrari alla guerra si erano silenziosamente adeguati dopo la decisione del governo. La guerra però non fu breve, come era stato promesso, e i sacrifici sostenuti dalla popolazione diventarono sempre più gravosi: l’aumento del costo della vita, la scarsità di generi di prima necessità, la fatica di un supplemento di lavoro per l’assenza di familiari al fronte, il dolore per i propri caduti, la repressione nella vita quotidiana e nei luoghi di lavoro. Pertanto nell’autunno 1916 cominciarono le proteste popolari, di cui furono protagoniste inattese le donne. I semi della propaganda “sovversiva” di socialisti e anarchici e della predicazione pacifista di sacerdoti impegnati nel sociale poterono germogliare: dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917 avvennero 500 manifestazioni di protesta.
Ebbero risonanza nazionale le manifestazioni che precedettero e accompagnarono il 1° maggio 1917 a Milano: le donne, arrivate dai paesi, riuscirono a coinvolgere le lavoratrici di diversi stabilimenti della città che lavoravano per la guerra. La protesta più violenta avvenne a Torino e dintorni nella seconda metà di agosto: la rivolta ebbe al suo sorgere una causa economica (mancanza di pane), ma si sviluppò assumendo un marcato carattere politico di protesta contro la guerra e di spinta ad accelerarne la fine; negli scontri tra forze dell’ordine e dimostranti persero la vita una cinquantina di persone, duecento i feriti.
La preoccupazione delle autorità politiche e militari di fronte al montare della protesta era così elevata che nell'ottobre 1917, pochi giorni prima della rotta di Caporetto, fu rafforzata la repressione attraverso un decreto, proposto dal ministro della Giustizia Sacchi, che colpiva col carcere ogni comportamento o discorso “disfattista” che potesse “deprimere lo spirito pubblico”.
Giovani prossimi alla chiamata di leva e ragazze loro coetanee diedero voce alla protesta attraverso canzonette “antipatriottiche” che esprimevano irrisione e insulto contro le autorità responsabili della guerra e della sua conduzione. Si registrò una raffica di arresti e condanne. Anche tra i soldati si diffusero canzoni in cui si inveiva contro la guerra.
L’opposizione dei soldati
I soldati espressero il loro no alla guerra mettendo in atto una serie di comportamenti vietati e duramente repressi: anzitutto la renitenza e la diserzione. Secondo i dati del ministero della guerra, le denunce per renitenza furono 100.000. Le denunce a carico di disertori furono 189.425, di cui 162.563 effettivamente processati; 101.665 i condannati.
Un altro espediente per “evadere” dalla guerra fu l’autolesionismo. I medici militari avevano l’ordine di essere meticolosi nello smascherare i simulatori. Su oltre 15.000 denunce, le condanne furono circa diecimila. Per dissuadere dal compiere il reato, la pena del carcere inferiore a 7 anni veniva sospesa e il condannato rimandato in prima linea.
Un inconscio rifiuto della guerra è considerata l’alienazione mentale, che colpì 40.000 soldati, ricoverati negli ospedali psichiatrici. Il loro essere lì era l’evidente prova della loro estraneità alla guerra, della loro muta opposizione. Nella prima fase della guerra gli psichiatri erano convinti che all'origine dei disturbi mentali dei ricoverati ci fosse una componente ereditaria. Successivamente si arresero a considerare la follia dei soldati come vera e propria “nevrosi di guerra”, conseguenza degli shock subiti: nella guerra andava riconosciuta la causa scatenante della malattia mentale.
La vita di trincea offriva un’occasione di prossimità con il nemico: osservarlo da vicino, vederne il volto, ascoltarne la voce, provare compassione della condizione di entrambi, sentire la propria umanità come terreno comune. Da qui scaturivano le forme di fraternizzazione con i soldati nemici, tanto temute e perciò punite dai generali. Le fraternizzazioni tra soldati nemici in trincea furono una delle più originali forme di rifiuto della guerra: esse rompevano un tabù, quello che non ci si potesse parlare tra “nemici” e si dovesse soltanto odiarsi e distruggersi. In Italia l’occasione fu data dal primo Natale di guerra, con lo scambio di auguri e strette di mano con austro-tedeschi in alcuni punti delle trincee, ma poi si ripeté nella quotidianità con lo scambio reciproco di prodotti (pane, sigarette).
L’indisciplina fu il comportamento più sanzionato, dopo la diserzione; la modalità tipica era il rifiuto del singolo soldato di eseguire un ordine dopo aver prestato servizi pesanti nei giorni precedenti. Anche un rifiuto di obbedienza poteva costare la fucilazione. La forma più grave di indisciplina furono le proteste collettive e perfino le rivolte sediziose. La più famosa quella messa in atto a metà luglio 1917 dalla brigata Catanzaro, stanziata a S. Maria La Longa: ai due ufficiali e nove soldati uccisi nel corso della rivolta, seguì la fucilazione di ventotto soldati, di cui sedici perché arrestati con le armi ancora scottanti per gli spari, dodici per decimazione; infine, il processo portò davanti al plotone altri quattro soldati.
Secondo coscienza
Alla luce delle misure repressive messe in campo per prevenire e reprimere ogni forma di opposizione alla guerra si comprende il grande valore delle scelte di coloro che espressero con discorsi, gesti, azioni il loro no, al di là delle motivazioni e della consapevolezza con cui li hanno praticati: essi seppero districarsi dal groviglio paranoico della guerra, assumendosi la responsabilità del proprio agire secondo coscienza, disobbedendo alle leggi e alle circolari; affermarono il valore del vivere che cerca soluzioni alternative all'uccidere e all'essere uccisi, testimoniando la volontà di costruire una società senza guerra e senza dominio degli uni sugli altri.