Parola a rischio
Qualifica Autore: Vescovo emerito di Pavia e già presidente di Pax Christi Italia

Oltre la tolleranza e i timori, l'Evangelii Gaudium ci indica percorsi di dialogo vero.
È questa la proposta del Vangelo.

 

La gioia è la ragione prima della missione di Gesù. Per questo è urgente che la sua Parola raggiunga ogni uomo e donna. Proporre il Vangelo costruisce legami buoni, e mette in luce il dramma della lacerazione e del conflitto. “Non crediate che sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Matteo 10,34). 

La frase di Gesù, che descrive la fatica dell’annunciatore proprio in casa sua, ci invita a riconoscere che il Vangelo è per la pace, ma che il conflitto è talvolta passaggio necessario verso la pace. Sappiamo che oggi con una certa inquietudine molti chiedono alla Chiesa e ai credenti come si collocano rispetto alla pace e/o al conflitto; la drammatica vicenda dei fondamentalismi religiosi fa sorgere il sospetto sulla attitudine al dialogo della esperienza cristiana.

La proposta del Vangelo, correttamente e lealmente intesa, toglie ogni timore. Infatti, il Signore esige una adesione totale alla sua persona e, a seguito del legame con Lui, chiede l’ascolto della Legge di Dio. Proprio questa è la condizione che rende il credente, e la Chiesa, sempre capaci di dialogo.   

Discepoli 

È sufficientemente indicativo riconoscere quali relazioni personali vive Gesù. Ecco la figura del discepolo: è la condizione di chi accetta di seguirlo, lasciando ogni cosa per Lui. Vi è la situazione, nei confronti del Maestro, di coloro che, per le strade di Palestina, Lo riconoscono come il Cristo. Leggiamo nel Vangelo che alcuni pagani gli chiedono aiuto. Altre volte appare come Gesù stesso riconosce una sintonia nei confronti di coloro a cui dice: “Tu non sei lontano dal Regno di Dio”. 

Possiamo dire che il messaggio evangelico ha in sé due diverse tensioni: chiede al discepolo piena disponibilità e dedizione, e allo stesso tempo propone uno stile di apertura cordiale e generosa nei confronti di chi non appartiene organicamente alla comunità dei discepoli. Dunque, la comunità cristiana è chiamata, in forza del suo riferimento al Signore, a essere capace di dialogo. È la pratica chiesta dal Signore: dare sapore e lievitare intuizioni ed esperienze di colloquio e di collaborazione. 

Primo impegno dei discepoli è quello di vivere una vita riconciliata. Non si parla soltanto di una necessaria ricerca di pace interiore, a partire dalla luce della fede, ma anche della propria personale esperienza di costruzione della pace. È capace di essere segno efficace di pace, quel credente, quell'uomo o quella donna, che accettano di “essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri” (Evangelii Gaudium n. 187).  

La cultura del dialogo

Un secondo aspetto è il richiamo alla costruzione di una cultura del dialogo; il credente e la comunità cristiana occorre che facciano crescere un processo di attenzione alla pace impegnando in esso “non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite”. Si tratta di puntare a far crescere “un accordo per vivere insieme, un patto sociale e culturale” (§ 239) che coinvolga un’intera società.

Una cultura del dialogo cresce e si afferma quando, con gesti e parole, impariamo a educare all'ospitalità verso chi arriva, ospite o pellegrino, migrante o fuggitivo. L’incontro con il nuovo arrivato ci rivela quanti sono i modi con i quali l’uomo, la donna interpretano la comune condizione di persona. E chi è diverso ci stimola a comprendere meglio quali sono le caratteristiche della nostra cultura.

Imparare a creare una cultura di pace comporta l’educare a credere negli uomini e in Dio: nessuno rifiuta davvero la pace, probabilmente però non si crede veramente, così da poter diventare un operatore di pace, e non ci si fida abbastanza di chi cerca di esserlo. Una società impara la concordia anche mediante concrete esperienze di cooperazione e di pacifica convivenza.

Per seguire il Signore, per essere dalla sua parte, per dare il proprio contributo alla pace che consegue al suo messaggio, occorre operare con generosità, aprire dialoghi, attuare collaborazioni. Ma talvolta è pure necessario il confronto coraggioso. La pace non è tolleranza: tollerare è solo un’accettazione passiva ed esteriore dell’altro; tollero solo chi non mi interessa, chi non mi sta a cuore. Pace non è solo un bel sentimento. Pace non è una convenienza politica: ad esempio, molti considerano la guerra un male da evitare, ma pochi la “ripudiano”, come ci chiede l’articolo 11 della nostra Costituzione.

L’esperienza della comunità cristiana favorisce il dialogo di pace, perché chi fa parte di essa è di fatto egli stesso partecipe di una ricchezza singolarissima: la memoria di esperienze gioiose e dolorose che si sono svolte nella storia; e non si tratta  di avvenimenti legati a un solo popolo. Noi oggi, ad esempio, attraverso l’esperienza di ciò che ha vissuto in America Latina l’attuale pontefice, siamo resi partecipi delle metodologie e delle acquisizioni dei movimenti popolari. Un tale deposito può essere un utile richiamo perché errori siano evitati e scelte positive siano compiute nel presente. Il Papa ricorda che il deposito della memoria della Chiesa può essere invito ai contemporanei, credenti e non credenti, perché possano ragionevolmente ampliare le proprie prospettive.

Dialogare con le culture 

Il Papa indica alcuni ambiti nei quali la Chiesa è chiamata a vivere il dialogo per la pace: lo stato, gli altri credenti che non fanno parte della comunità cattolica. Interessante e innovativa, è la seconda istanza proposta: realizzare il dialogo con le culture e le scienze. Rispetto a questo aspetto dell’impegno per la pace, ogni credente è interpellato personalmente. Educare alla pace è costruire atteggiamenti condivisi. Si tratta di educare al sogno di un mondo di pace, senza conflitti, o comunque allenato a superarli, abitato da uomini e donne laboriosi, che comprendono, magari per averla sperimentata personalmente, l’importanza della solidarietà e dell’aiuto reciproco.

Una comunità cristiana che privilegia il dialogo come forma di incontro, educa a non avere paura del dissenso, della controversia e a riconoscere nell'altro che ti contesta un avversario, non un nemico; un antagonista oggi, magari un alleato domani, chissà. Una cultura di pace educa a trovare l’accordo quando, per varie ragioni, non si riesce a trovare un punto di incontro. Spinge, infatti, a guardare più avanti, a formulare ipotesi di futuro in cui il contrasto di oggi può trovare soluzione.

Una cultura di pace, sottolinea il Papa, si costruisce educando a credere nella sorella della pace, la giustizia, che – attenzione – è esigente, severa, incontentabile perché non si è mai giusti abbastanza. La giustizia è irriducibile al minimo compromesso. Seguendo lo stimolo di papa Francesco (239) ci domandiamo come educare a ripartire nel dialogo o nella collaborazione, a ricominciare dopo le delusioni, i fallimenti, i capitomboli – a livello sia personale, sia sociale – perché occorre riprovare, rilanciare, riannodare i fili sottili e fragili del dialogo, del confronto, se si vuole vestire l’abito della pace.


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