A cura di Roberto Sedda 

I videogiochi sono un mondo, un universo da cui oggi non si può prescindere. 
Costituiscono anche un modo di leggere la realtà. 
Sono un mezzo di comunicazione a forte impatto sociale. 
Che relazione hanno con la pace e il ripudio delle guerre e delle violenze? 
Esistono produttori e creatori di videogiochi che ne fanno un media intelligente che conduce il giocatore ad abitare scenari differenti e lo aiuta a mettersi nei panni dell’altro?

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I videogiochi e il loro protagonismo nel nostro tempo.
Chi ne fa uso e quale ruolo hanno oggi?
Definizioni, spazio, tempi e protagonisti dell’arte ludica online.

 

Stando agli ultimi dati resi noti da AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani), il 57% della popolazione italiana tra i 16 e i 64 anni ha giocato ai videogiochi nel corso del 2017. Di questi il 59% sono uomini e il 41% donne. La fascia d’età che annovera il maggior numero di giocatori è quella che va dai 25 ai 34 anni (28%). Nella fascia tra i 45 e i 54 anni si concentra il 17% degli utenti; in quella tra i 16 e i 19 anni il 13%. 

Ovvero di come un videogioco indipendente ha messo in scena la burocrazia al posto dell’avventura, e di come ciò lo ha reso una forma d’arte.

 

Alcuni giochi non si pongono solo come passatempi, ma hanno ambizioni diverse: possono presentarsi come narrazioni, come immersioni nelle vite altrui, come occasioni di riflessione o di pensiero. Come esperimenti mentali, o come paradossi realizzati. Per vedere come tutto questo possa accadere in un gioco userò uno dei titoli più premiati di questi anni, un videogioco indipendente, scritto da Lucas Pope nel 2013: Papers, Please.

Come nasce un gioco di guerra?
Intervista a un suo ideatore e progettista che vede la realtà bellica dalla parte dei civili che sono incolpevolmente nel mezzo.

 

This war of mine (“Questa mia guerra”, d’ora in poi TWoM) non è un gioco divertente (e non dico questo come critica). Si tratta di un simulatore bellico tristemente emozionante che vi pone a capo di un piccolo gruppo di civili intrappolati in una guerra. Non ci sono epiche battaglie se non quelle per il cibo, le medicine e il riscaldamento. È un racconto cupo e realistico di un aspetto della guerra frequentemente ignorato: quello di coloro che sono presi nel mezzo del confitto. Ci sono stati dubbi che un gioco potesse essere lo strumento migliore per argomenti di questo genere, ma Pawel Miechowski, progettista capo, non è d’accordo. In questa intervista sostiene in maniera convincente che il (video)gioco ha finalmente raggiunto la maturità.

Il videogioco è una narrazione ma anche un’opportunità di abitare scenari diversi. Rapido viaggio in giochi di altri paesi che aiutano a riflettere in modo critico sulle scelte del mondo occidentale.

 

Videogiocare è posizionarsi rispetto a un racconto, “abitare” scenari differenti, mettersi nei panni dell’altro, simulare situazioni spesso lontane da sé. Ogni schema ludico sottende un’ideologia che rispecchia il pensiero di chi lo progetta. Afferma Bittanti, “comprendere il testo videoludico significa anche tenere conto del contesto nel quale emerge, considerare le dinamiche sociali che innesca. […] Il videogioco è una forma di ideologia visuale, al punto che […] ogni videogioco veicola in forma implicita o esplicita contenuti politici, sociali e culturali”.

Creatori di videogiochi al servizio del prossimo e non del profitto.
Intervista a Piero Cioni, sviluppatore per un gigante informatico.

 

Ciao Piero, chi sei?

Piero Cioni, bolognese, del 1963 (una buona annata...). Ho frequentato il liceo scientifico e poi ingegneria elettronica. Ho studiato e approfondito moltissime altre materie, di cui in modo estremamente serio teologia comparata, storia antica e astrofisica. Ho lavorato come programmatore per alcune software house. In seguito sono passato all’università di Bologna, dove ho scoperto la mia passione per l’insegnamento.


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