Creatori di videogiochi al servizio del prossimo e non del profitto.
Intervista a Piero Cioni, sviluppatore per un gigante informatico.
Ciao Piero, chi sei?
Piero Cioni, bolognese, del 1963 (una buona annata...). Ho frequentato il liceo scientifico e poi ingegneria elettronica. Ho studiato e approfondito moltissime altre materie, di cui in modo estremamente serio teologia comparata, storia antica e astrofisica. Ho lavorato come programmatore per alcune software house. In seguito sono passato all’università di Bologna, dove ho scoperto la mia passione per l’insegnamento.
Nel frattempo la mia carriera di game designer correva parallela e ho collaborato con parecchie aziende. Infine, ho avuto la fortuna/possibilità di far del game designing il mio lavoro ufficiale e sono emigrato in Germania per lavorare per la Ubisoft, uno dei giganti dei videogiochi.
Esattamente che lavoro fai?
Io faccio il game designer, ovvero partecipo, assieme ad altri, alla creazione e/o mantenimento di videogiochi. Sono considerato un grande esperto di meccaniche, dinamiche e bilanciamento. Spesso creo giochi nuovi e li presento per una possibile pubblicazione futura.
Come sei arrivato a questo lavoro? Eri un ragazzino timido e occhialuto sempre attaccato al computer?
Ero un ragazzino attaccato ai computer, sì, ma ho sempre avuto molti, molti, molti amici. Infatti, ero spesso al centro dell’organizzazione del divertimento. Sono sempre stato un po’ il motore del nostro gruppo. Una specie di clown e cantastorie. Questo sicuramente ha plasmato il mio carattere di “generatore di divertimento” che alla fine è diventato il mio lavoro.
Il tuo progetto o risultato di lavoro del quale sei più orgoglioso?
Come dico sempre ai miei studenti: “Esiste solo una risposta valida alla domanda: qual è il tuo miglior gioco? ‘Il prossimo’”. Il game designing è un “viaggio senza destinazione”. Non si finisce mai di imparare e diventare migliori.
Puoi darci un’idea della complessità necessaria per produrre giochi come quelli che fai?
Lavorare per un’azienda gigante è molto impegnativo, un’esperienza da provare sicuramente dopo aver maturato esperienza in aziende più piccole. Qui devi essere maledettamente bravo nel tuo lavoro, l’ambiente è molto professionale e focalizzato sul risultato finale. Una sorpresa per quasi tutti quelli che si avvicinano a queste produzioni è il numero di persone coinvolte. Nel gioco a cui lavoro attualmente siamo circa 400 persone divise fra Montreal, Barcellona, Dusseldorf e San Pietroburgo. Gli investimenti economici, inoltre, sono enormi e senti sulle spalle il peso di questa montagna di denaro. Devi essere una persona decisamente responsabile. Alcuni crollano sotto una pressione del genere.
Una grande dimensione internazionale…
Lavorare con colleghi di varie nazionalità e culture è uno degli aspetti migliori del lavorare per una grande azienda internazionale. Io adoro confrontarmi con persone di culture diverse. Non hai idea di quanto ti faccia comprendere del mondo e di te stesso, di quanto sia formativo.
Quanto entra nel vostro lavoro il rapporto con altri media?
In Ubisoft (ma non in tutte le ditte è così) cerchiamo di costruire sempre un universo attorno al gioco. Questo può portare o meno allo “sconfinamento” in altri settori come i film o i fumetti. Diciamo che non partiamo con l’idea di fare sempre un film, ma la possibilità viene tenuta presente fin dall'inizio.
Che spazio c’è per la dimensione autoriale nel lavoro su giochi che sono ormai dei “marchi” consolidati, con una loro identità ben stabilita e delle aspettative molto forti nel pubblico?
Questo è di solito un grande cruccio per i creativi come me. Naturalmente in un marchio già consolidato non c’è molto spazio creativo. Non è tipico solamente dei videogiochi. Quando un prodotto è amato dal pubblico ci sono delle aspettative che non vanno tradite. Facciamo un esempio: tu faresti il prossimo film di Batman come un musical spensierato? Si deve introdurre qualcosa di nuovo, ma si ha molta paura che il pubblico non apprezzi. È molto difficile. Nei videogiochi si cerca ultimamente di coinvolgere i fans nello sviluppo, facendo loro provare versioni iniziali e vedendo le reazioni.
Che differenze noti col mondo delle “indie”, le piccole case indipendenti?
Non potrebbero essere più diversi. Io definisco un’azienda indie come “strutturale”, cioè si tratta di un’azienda fatta di persone e le procedure vengono create attorno alle persone. Mentre una grande azienda internazionale è di tipo “sistemico” ovvero è una ditta composta di procedure a cui le persone devono adattarsi.
Un tema che inevitabilmente viene evocato a proposito dei videogames è quello della violenza e della presenza di contenuti “diseducativi”. Tu come la pensi?
Io sono indeciso. Da un lato giochi violenti sono diseducativi, dall'altro costituiscono un’efficace valvola di sfogo per frustrazione e rabbia che riduce la violenza nel mondo reale. Io non so quale di questi due fattori opposti abbia un peso maggiore.
L’errore più comune che fa chi giudica il mondo dei videogames dall'esterno?
In generale i commenti esterni spesso ignorano cosa vuol dire fare un videogioco. Alcuni critici dicono: basta aggiungere questo o rimuovere quello. Possono dare fastidio perché tutte queste varianti sono state tentate e valutate da esperti. Ogni possibile permutazione è probabilmente stata provata e ritenuta peggiore.
“I videogames sono ormai un mezzo di comunicazione maturo in grado di affrontare temi di qualunque genere e di avere un impatto sociale importante”. Sei d’accordo?
Completamente d’accordo. Dalle mie esperienze di game designer e di insegnante, sostengo da sempre che i giochi (non solo i videogiochi) sono uno dei migliori strumenti educativi e anche uno dei migliori canali di discussione di temi difficili. D’accordo al 100%.
Dal tuo punto d’osservazione quali sono i progetti recenti o le linee di evoluzione più interessanti in questo senso?
Io vedo (e la cosa mi fa felice) un lento abbandonare del modo tipicamente “americano” di fare videogiochi. Si dovrebbe parlare di questo argomento a lungo. Il successo di alcuni giochi recenti ha aperto la possibilità di uscire da certi schemi narrativi statunitensi che erano ormai fuori dall'immaginario europeo e giapponese/coreano. Ora possiamo raccontare storie diverse e proporre giochi diversi. Apprezzo moltissimo questo e speravo che accadesse prima.
Se ti chiedessi un gioco che ha avuto un vero impatto culturale o sociale, quale mi indicheresti?
Nel passato Dungeons and Dragons. Più recentemente Magic the Gathering. Non c’è niente di nemmeno paragonabile. Hanno avuto il merito di cambiare la percezione del mondo del gioco. I giocatori non sono più “nerd” o “geek” pseudo-asociali o eterni bambini. I giochi e i giocatori sono molto più accettati oggi. Come impatto culturale o sociale non ci sono molti esempi calzanti. Come game designer sono disgustato dal vecchio Monopoly.
Un gioco estremamente diseducativo.
Qual è un risultato davvero fantastico ottenuto dai videogame negli ultimi tempi? E una cosa fantastica che succederà in futuro?
Io credo che uno dei successi dei videogiochi risieda nell'essere una sorta di film interattivi. Quando vai al cinema spesso ti stupisci della stupidità dei protagonisti e pensi che nella stessa situazione tu avresti preso una decisione diversa. Nei videogiochi è proprio quello che accade. Il risultato è che negli ultimi 20-30 anni il pubblico è molto più maturo. È anche difficile da accontentare: questo è impegnativo per noi del settore, ma è un importantissimo passo avanti. Vedo, per esempio, che i videogiochi aiutano nell'evitare i condizionamenti psicologici o la propaganda. La gente è più abituata a pensare con la propria testa. Nel futuro, penso che i progressi tecnologici ci permetteranno di offrire esperienze sempre più realistiche.
Per finire, come ti immagini il tuo lavoro fra dieci anni?
Fra dieci anni sarò in pensione! Probabilmente creerò giochi da tavolo e scriverò libri. Altrettanto probabilmente farò musica elettronica per colonne sonore. Cose creative ma rilassate e rilassanti.
Roberto Sedda è referente dei soci di Banca Etica per l’area Centro Italia. È stato presidente e socio fondatore de La Porta d’Argento per la quale ha curato diverse edizioni dei campionati nazionali di Cyberpunk 2020. Fondatore e presidente dell’associazione i Fabbricastorie, ha curato il volume Gioca la storia e scritto i giochi La rivolta di Amsicora, La missione di Felice, Un convento sul colle, Il disertore. Ha collaborato, con un progetto a tema, a Lucca Comics & Games 2012 e tuttora crea giochi, scrive articoli e cura un blog: www.robertosedda.it