Il videogioco è una narrazione ma anche un’opportunità di abitare scenari diversi. Rapido viaggio in giochi di altri paesi che aiutano a riflettere in modo critico sulle scelte del mondo occidentale.
Videogiocare è posizionarsi rispetto a un racconto, “abitare” scenari differenti, mettersi nei panni dell’altro, simulare situazioni spesso lontane da sé. Ogni schema ludico sottende un’ideologia che rispecchia il pensiero di chi lo progetta. Afferma Bittanti, “comprendere il testo videoludico significa anche tenere conto del contesto nel quale emerge, considerare le dinamiche sociali che innesca. […] Il videogioco è una forma di ideologia visuale, al punto che […] ogni videogioco veicola in forma implicita o esplicita contenuti politici, sociali e culturali”.
Nel controverso scenario dei modelli v-ideologici del “noi siamo sempre i buoni” e del nemico da abbattere nascono, allora, anche forme di sovversione di tali orientamenti, a testimonianza che la cultura dei videogame non è monolitica. Dopo l’11 settembre anche nell'industria videoludica le tematiche sono cambiate: in maniera sempre più diffusa il nemico ha la faccia di terroristi islamici o tratti somatici e abbigliamento non-occidentali. Diventa così più semplice catturare Osama Bin Laden nella virtualità del videogame Bin Laden Liquors che nella realtà, o partecipare alla caccia e alla cattura di un Saddam Hussein digitale molto simile a quello reale, in uno degli episodi del videogioco bellico Kuma War.
Storie invisibili
Ma la storia non è fatta di un’unica verità, di omogeneità, di un unico punto di vista: la storia è costituita da punti di vista spesso contrapposti; è fatta delle storie degli altri e delle altre, molto spesso invisibili, silenziati, interpretati dallo sguardo più forte che diventa voce narrante per tutti. Ecco, dunque, che hanno un particolare interesse e valore i prodotti videoludici che in questo decennio sono stati proposti dalla “controparte”, ovvero da chi si sente additato come il nemico, da quella alterità ingabbiata dal mondo occidentale in stereotipi e pregiudizi (pericoloso, arrabbiato, perdente, povero, violento, pauroso, incomprensibile...) per – si potrebbe dire alla Danilo Dolci – dare loro voce, far emergere le loro ragioni dall’invisibilità.
In questa direzione sono stati realizzati, nel 2003-2006 a Damasco, due importanti e controversi – nonché osteggiati – videogiochi: UnderAsh (“Sotto la cenere”) e il suo seguito, UnderSiege (“Sotto l’assedio”), prodotti dalla compagnia siriana Afkar Media e dall’autore Radwan Kasmiya.
Si potrebbero definire come la risposta politica ai modelli proposti dall’industria videoludica occidentale. Gli eroi protagonisti sono i guerriglieri dell’Intifada e le storie si svolgono in una prospettiva in prima persona. Tra i personaggi di UnderSiege, per esempio, c’è Ma’an, un bambino di 13 anni che ha vissuto per la maggior parte della propria vita in strada, a fuggire dai soldati e dai carri armati, e Mariam, il simbolo delle donne palestinesi, con un marito in prigione, un fratello ucciso dagli israeliani e un altro che cerca vendetta. In una recensione su Neural.it si legge: “rimpiazzando i contenuti filo-occidentali con altri che assumono la prospettiva opposta, rende immediatamente possibile un’altra lettura del conflitto che porta a galla altre verità e un’identica tensione di giustizia. Lo spauracchio dell’etnia ‘araba’ come ‘nemica’ viene qui ribaltata, riscattando parzialmente uno dei peggiori luoghi comuni calcificatisi nella cultura occidentale degli ultimi anni [attraverso] lo sfruttamento di un paradigma estetico e ludico per veicolare contenuti alternativi alla politica culturalmente oligarchica dell’industria dell'entertainment”. Trasportare un conflitto nel virtuale può servire, dunque, a prevenirlo nel reale o ad analizzarlo da diversi punti di vista, per tentare di comprenderne la complessità, per uscire da una logica binaria di “buoni e cattivi”. La costruzione degli eroi arabi e islamici nei videogiochi è una parte fondamentale della continua emancipazione digitale del vicino Oriente che, sebbene susciti preoccupazione in Occidente, sicuramente andrà avanti e può contribuire notevolmente di riflesso a come i nostri i videogiochi raffigurano l’altro e gli stranieri.
È di grande interesse il lavoro dell’albanese Gentian Shkurti che nel 2001 ha presentato Go West, affermando definitivamente il videogame come medium che usa l’estetica e le regole del gioco per comunicare contenuti sociali e politici, senza dimenticare una buona dose di sarcasmo. La narrazione, infatti, è tanto semplice quanto dirompente: il protagonista deve riuscire a raggiungere le coste italiane dall'Albania sul famoso gommone da clandestini, sfidando la Guardia di Finanza. Il finale è assolutamente sorprendente: se riesce ad arrivare sulle coste italiane scopre che il suo immaginario del nostro paese è soltanto una visione televisiva e non reale! Afferma Shkurti: “L’immigrazione illegale sembra essere il modo principale di realizzare l’aspirazione degli albanesi di integrarsi con l’Europa e li rende ciechi anche quando è a rischio la propria vita. Quando poi arrivano, scoprono che l’Italia è tutt'altra storia. Tutto questo mi sembra come un videogioco, destinato a non riuscire mai”.
Accanto a questi giochi progettati nei paesi stessi di cui si propone un ribaltamento di punto di vista esiste una vasta produzione di altri videogames che puntano sulla costruzione di un pensiero critico, trattando di ingiustizia sociale, rabbia, razzismo, sfruttamento: sono i cosiddetti newsgaming, basati sugli eventi e le notizie emergenti. Rifiutano la logica binaria vincere-perdere, promuovono un attivismo virtuale, un movimento pacifista da giocarsi online. Un esempio importante è 12th september, una realizzazione satirica e toccante al tempo stesso realizzata da Gonzalo Frasca, sul giorno dopo il famoso attacco terroristico: cosa accade attivando la “caccia all’uomo”, lanciando le “bombe intelligenti” sulla popolazione civile? I videogiochi prodotti dalla danese Serious Games si prefiggono di “cambiare la prospettiva dei giovani sui conflitti mondiali; conoscere i conflitti in tutto il mondo e le questioni chiave relative a loro come i diritti umani, i pregiudizi sui media e la democrazia”. Troviamo titoli quali Global Conflicts: Middle East, centrato sempre sul conflitto arabo-israeliano: anche qui è possibile scegliere da che parte schierarsi, ma l’approccio al conflitto è a livello di strada anziché top-down. Il giocatore è un giornalista freelance e in uno scenario aperto si trova a raccogliere indizi e a compilare articoli per possibili committenti. Uno stratagemma efficace per stimolare la curiosità del giocatore ed esporlo a racconti (basati su vere testimonianze) da entrambe le parti.
È importante segnalare anche la variegata produzione videoludica di titoli che immergono il videogiocatore nelle dinamiche della mediazione dei conflitti: tra questi Peace Maker, sempre sul conflitto israeliano-palestinese; Pax Warrior, in cui il giocatore svolge il ruolo di un comandante U.N. durante il genocidio rwandese nel tentativo di attivare processi di pace; A force more powerful, un gioco per educare alla nonviolenza.
The invisible hand, realizzato dalla bolognese Koala Games propone, invece, riflessioni critiche basate su un modello economico differente, alternativo alle logiche delle multinazionali e dei grandi produttori: ci porta a scoprire le connessioni del nostro modello economico con la vita dei lavoratori di un possibile paese africano produttore di cacao.
I migliori (video)giochi moderni, dunque, ci obbligano a riflettere sulle nostre scelte e a cercare di capire come il mondo potrebbe essere diverso se avessimo fatto altre scelte. Questa è una potente forma di educazione etica: “… il videogame, a questo punto, arriva e squarcia il velo. Mette in scena mondi immaginari, etiche rovesciate. Definendosi lealmente ed esplicitamente come gioco, come territorio del fantastico, ci aiuta a marcare la differenza tra l’universo reale e quello fittizio. Aiutandoci, forse, a recuperare il senso della realtà”.
Rosy Nardone è ricercatrice in Didattica e Pedagogia speciale presso l’università degli studi di Chieti-Pescara. È membro del CSGE (Centro Studi sul genere e l’Educazione) e del CEMET (Centro di Ricerca su Media, Educazione e Tecnologie) del dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni M. Bertin” dell’università di Bologna.
È membro del coordinamento scientifico del corso di formazione permanente Prospettive di genere nella didattica delle discipline”, promosso dal CSGE.
Ha scritto diversi libri e pubblicazioni.