Ovvero di come un videogioco indipendente ha messo in scena la burocrazia al posto dell’avventura, e di come ciò lo ha reso una forma d’arte.
Alcuni giochi non si pongono solo come passatempi, ma hanno ambizioni diverse: possono presentarsi come narrazioni, come immersioni nelle vite altrui, come occasioni di riflessione o di pensiero. Come esperimenti mentali, o come paradossi realizzati. Per vedere come tutto questo possa accadere in un gioco userò uno dei titoli più premiati di questi anni, un videogioco indipendente, scritto da Lucas Pope nel 2013: Papers, Please.
Il titolo racconta già tutta l’ambientazione e introduce al meccanismo di gioco: Papers, please, ovvero “Documenti, prego!”: nel gioco siamo un impiegato della dogana, e abbiamo il potere di accettare o rifiutare l’ingresso delle persone che si presentano allo sportello. Lavoriamo per un regime comunista (almeno così capiamo dalla retorica diffusa) nell'immaginario paese di Arstotzka: veniamo pagati per ogni passaporto che esaminiamo, e multati per ogni errore che facciamo. Alla fine di ogni giornata vedremo se abbiamo guadagnato abbastanza per mantenere la nostra famiglia o meno, dopo aver controllato velocemente e rigorosamente se le persone allo sportello hanno diritto di entrare in Arstotzka.
Vivere al confine ci permette di essere spettatori della storia: cercano di entrare derelitti e fuorilegge, terroristi e contrabbandieri; siamo spettatori della disperazione altrui, ma anche giudici, perché saremo noi a decidere se concedere o meno una possibilità rischiando una sanzione. La narrazione prosegue concitata: le regole cambiano ogni giorno, per bloccare alcuni flussi in ingresso, per non concedere permessi di lavoro, per tenere il passo di una burocrazia che cresce velocemente durante il gioco.
In tutto questo, continuiamo a vedere solo la coda e le persone che si presentano allo sportello, sentiamo le loro parole e leggiamo i loro documenti.
Compiti quotidiani
Proveniente da un grande studio di programmazione, Pope ha consapevolmente scelto di mettere in scena non l’eroismo dei superpoteri, ma dei compiti quotidiani, riempiendoli di senso e di dubbi. Ha fatto una scelta narrativa e artistica, che concede qualcosa all'intrattenimento, intrecciando micro trame drammatiche con parentesi più leggere; ma di fondo scrive una storia che ci interroga.
Il gioco
Durante il gioco, infatti, abbiamo due ordini di problemi: il primo è giocare meglio che possiamo perché da questo dipende la sopravvivenza nostra e della nostra famiglia. Il secondo interroga le nostre scelte, fatte in ottemperanza alle richieste del gioco e del regime per cui lavoriamo, ma che difficilmente corrisponderanno alla nostra morale di persone.
Giocare per sopravvivere è tutto sommato un cliché del videogioco: in Papers, Please c’è però un lieve slittamento di significato che fa pensare; non dobbiamo sopravvivere per non ricominciare da capo il livello, ma mettere da parte soldi (sempre pochi) perché con essi potremo pagare l’affitto, il riscaldamento, il cibo, le medicine per noi e i nostri cari. Perché piano piano la nostra famiglia inizierà a soffrire e stare male: senza nessuna barretta con la vita che scende, ma con laconiche comunicazioni di fine giornata. Il fatto che non si sia noi a soffrire, ma qualcuno a noi vicino è una prima, semplice e puramente narrativa, dimostrazione della qualità principale di questo gioco: è un gioco di empatia, in cui ci immedesimiamo col protagonista e perciò con le persone che stanno in fila.
Puzzle game
Ed ecco il secondo dilemma: il gioco è tecnicamente un puzzle-game, cioè un gioco che mette al centro la nostra capacità di osservazione e di riconoscimento di dettagli – spesso però noi sappiamo benissimo cosa dovremmo fare, ma non siamo sicuri di volerlo fare: in un’occasione, per esempio, facciamo passare prima il marito, che è in regola con i documenti e in fuga da una dittatura; poi, dovremmo bloccare la moglie, che invece non ha tutti i documenti. Se non lo facciamo rischiamo una sanzione, e quindi di avere meno soldi per la nostra famiglia.
L’empatia porta così con sè il libero arbitrio, la sensazione di scegliere non solo per noi e il nostro interesse, ma in nome di un interesse più ampio – che non è riconosciuto nemmeno dal sistema di gioco. Perché, giocando, ci viene naturale pensarci come esseri umani, e pensare a ciò che ci viene raccontato come qualcosa che riguarda delle persone.
I videogiochi, rispetto agli altri media, vincono sempre per “immersività”, cioè per la capacità di far calare il giocatore esattamente dove si svolge la vicenda: Pope realizza l’immersività in Papers, Please soltanto tramite la storia e la gestione del tempo e della nostra limitatissima capacità di giudizio.
Nel gioco vediamo solo il nostro gabbiotto di frontiera e leggiamo solo il nostro giornale di governo: abbiamo, quindi, una visione molto limitata di ciò che capita intorno; al tempo stesso percepiamo la storia che scorre intorno a noi, le vite individuali che sono fatte di fughe e di movimenti, di rischi, di scelte. E mentre andiamo avanti ci sembra difficile poterle giudicare solo sulla base del timbro che possiamo apporre al passaporto, e sappiamo che, se perdiamo troppo tempo per pensare, non avremo abbastanza soldi da portare a casa.
Ho parlato, prima, di empatia e di libero arbitrio come qualità specifiche di questo gioco particolarissimo: l’ultima qualità è più impalpabile, è la possibilità di sentirsi parte di una storia che non conosciamo – è l’emergere della nostra umanità, dell’essere comunque parte del nostro tempo e di ciò che ci capita intorno.
Papers, please!
Papers, please è un gioco del tutto antiretorico: eppure fa pensare, e molto, alle scelte che possiamo svolgere ogni giorno, qualsiasi sia il mestiere che facciamo. Non presenta supereroi, ma azioni quotidiane. Mette al centro il gesto meno avventuroso che possiamo immaginare, timbrare un foglio.
Però coinvolge, fa riflettere, stupisce: non ci sono aggiornamenti continui come per altri giochi, ma versioni del gioco per le varie piattaforme (l’ultima è di dicembre 2017 per PS Vita); ha superato i due milioni di copie vendute, che è un numero decisamente ragguardevole, e ha vinto numerosi premi.
Il tutto con una grafica “pixellata”, cioè a quadrettoni, senza grandi musiche e con un’ambientazione ridotta al minimo. Alcuni critici hanno salutato il successo di questo gioco come “la capacità di portare il videogioco a livello di opera d’arte”: al di là del giudizio roboante, la trovo una buona definizione, perché mette al centro non un’idea estetica o di intrattenimento, ma la capacità di coinvolgimento dello spettatore/lettore/giocatore, il desiderio di far pensare e interrogarsi criticamente.
Papers, Please fa tutte queste cose; e ne fa, ne ha fatta, anche un’altra: ha contribuito al dibattito all'interno della comunità degli sviluppatori, mostrando come ci sia spazio e interesse anche per scelte meno banali all'interno del mondo del game design. Sono passati, nel momento in cui scrivo, cinque anni dall'uscita del gioco: sono nati altri giochi per portare al centro del dibattito pubblico questioni diverse, dall'ecologia all'immigrazione, dai modelli di sviluppo alla deforestazione, dagli stereotipi di genere ai rapporti di potere sui luoghi di lavoro.
Il videogioco sta diventando anche questo: un modo per esplorare altri mondi, e quindi per interrogare in maniera diversa il nostro mondo. E per coinvolgere una moltitudine separata e partecipe. Potrebbero nascere cose molto interessanti.
E potremo decidere se essere parte della storia, o se stare a guardare e passare a un altro gioco.
Preparate i vostri documenti, grazie. Avanti il prossimo.
Beniamino Sidoti si occupa di giochi e di narrazione e degli incroci tra questa e il gioco: è stato tra i fondatori di Lucca Games, ha scritto con Andrea Angiolino il Dizionario dei giochi (Zanichelli, 2010) e numerosi saggi e libri di narrativa.