I videogiochi e il loro protagonismo nel nostro tempo.
Chi ne fa uso e quale ruolo hanno oggi?
Definizioni, spazio, tempi e protagonisti dell’arte ludica online.

 

Stando agli ultimi dati resi noti da AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani), il 57% della popolazione italiana tra i 16 e i 64 anni ha giocato ai videogiochi nel corso del 2017. Di questi il 59% sono uomini e il 41% donne. La fascia d’età che annovera il maggior numero di giocatori è quella che va dai 25 ai 34 anni (28%). Nella fascia tra i 45 e i 54 anni si concentra il 17% degli utenti; in quella tra i 16 e i 19 anni il 13%. 

Basterebbero questi numeri a sfatare molti luoghi comuni che circondano da decenni i videogiochi. I videogame, per esempio, non sono prerogativa maschile. Il mito del ragazzo nerd e solitario rinchiuso nella propria cameretta è ormai tramontato. Al suo posto un pubblico diversificato sia per genere che per età. Anche l’esperienza ludica s’è fatta meno solitaria: l’avvento di internet e dell’online ha aperto la strada a esperienze multiplayer, a community affiatate, a gruppi di amici le cui relazioni reali proseguono nel mondo virtuale, cuffia e joypad alla mano. 

Le percentuali dimostrano, poi, che gli utenti sono soprattutto adulti. Qui entra in scena un pregiudizio collaterale, che riguarda per esteso il concetto di gioco. Nell'immaginario comune si tratta di una pratica fanciullesca, qualcosa che viene meno man mano che si cresce. Un errore di prospettiva notevole e che non tiene conto dell’importanza di tale attività nella vita di ogni individuo. “Smettila di giocare, fai il serio!”, è un tipico imperativo che la dice lunga su quanto la percezione del gioco sia spesso falsata, impoverita. A bilanciare la situazione ci pensano espressioni come “mettersi in gioco”, che riqualificano con ottimismo la possibilità di mettersi in discussione, di uscire dai propri confini. Rimane, tuttavia, credenza diffusa che a un certo punto si smetta (si debba smettere?) di giocare. 

Il principio vale anche per i videogame, tanto è lo stupore che spesso circonda colui che dichiara di videogiocare dopo i trent'anni. Eppure non si smette mai di leggere, né di guardare film, perché dovremmo smettere di videogiocare? Conviene allora forse soffermarsi sulla definizione stessa di videogioco.

Definizioni

Prendiamo la definizione più classica, proveniente dal vocabolario Treccani: “Dispositivo elettronico, costituito da un generatore di impulsi video per la simulazione su schermo televisivo o su un apposito monitor di giochi o competizioni sportive (scacchi, tennis, corsa automobilistica, battaglie in scenari fantastici, ecc.), i quali possono essere praticati da due concorrenti in competizione (o anche da una sola persona, che gioca contro la macchina) mediante l’azionamento di tasti o di un joystick”. Una definizione assai parziale, poco aggiornata, che non considera l’evoluzione che ha caratterizzato il mezzo dalle origini a oggi. 

Non abbiamo scomodato a caso libri e film, poco più su. Il videogioco è, infatti, un medium che è maturato notevolmente nel corso degli anni, che ha dimostrato e dimostra costantemente di essere in grado di trattare temi storici, politici e sociali con grande naturalezza ed efficacia. Uno strumento che, al pari di altri mezzi di comunicazione, denota un incredibile potere in termini di coinvolgimento emotivo. Come il cinema e la letteratura, il videogioco è sempre più di frequente veicolo di storie e narrazioni che mescolano fiction e realtà; è uno strumento creativo al servizio degli autori e a uso e consumo dei giocatori: una formidabile macchina dell’immaginario. Il carattere competitivo, che pur caratterizza alcuni generi, non esaurisce il medium; al contrario, oggigiorno l’universo videoludico è letteralmente esploso, sia dal punto di vista delle strutture che dei contenuti. Si assiste a una costante ibridazione di generi; a sperimentazioni grafiche e sonore; a recuperi nostalgici di vecchie retoriche – da sempre segno di maturità – e a nuovi filoni che abbandonano del tutto i concetti di sfida e nemico. I racconti si fanno via via più intimistici; si scava nelle profondità dell’animo umano o si racconta la grande Storia, valorizzando le caratteristiche narrative del medium. E pensare che tutto era partito all'università e dal tris.

Un po’ di storia

Esperimenti quali OXO (1952) e Tennis for Two (1956) consentono di soffermarsi per qualche istante sul fatto che i videogiochi non nascono come prodotto commerciale. I primi prototipi vedono la luce in ambito universitario per testare la tecnologia dell’epoca. OXO permetteva all'utente di sfidare il computer in una partita a tris; Tennis for Two era un rudimentale simulatore di tennis con visuale laterale, che utilizzava il display di un oscilloscopio. È invece del 1962 il celebre Spacewar!, realizzato presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT): sullo schermo due navicelle intente a sfidarsi nello spazio. Perché i videogiochi svelino la loro natura commerciale bisognerà attendere gli anni Settanta e in particolare Pong (1972), uno dei primi grandi successi di quella che sarebbe diventata a breve un’industria dell’intrattenimento. Come Tennis for Two, anche Pong è un rudimentale simulatore di tennis: due racchette stilizzate su sfondo nero, una rete, una pallina quadrata. Meccaniche e narrazione si fanno più elaborati in Space Invaders, sparatutto a schermata fissa del 1978 che vede il pianeta Terra invaso da orde di alieni. I videogiochi iniziano a raccontare storie sempre più complesse man mano che la tecnologia evolve. La storia del videogioco non è solo strettamente connessa allo sviluppo della tecnologia, ma anche costantemente intrecciata a quella degli altri media.

Scambi e contaminazioni

I mezzi di comunicazione non vivono all'interno di compartimenti stagni. Assistiamo quotidianamente a contaminazioni, scambi di retoriche e linguaggi, condivisioni di spunti e storie. Il videogioco dimostra di stare a proprio agio all'interno di questo panorama crossmediale. Talmente a proprio agio da diventare spesso tassello di universi narrativi più ampi. Al grado zero possiamo individuare la pratica dell’adattamento: così come esistono film tratti da libri (e viceversa) o fumetti che diventano film, ci imbattiamo sempre più spesso in operazioni di adattamento che dai libri conducono ai videogiochi (due casi esemplari: The Abbey, traduzione videoludica del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, e Dante’s Inferno, rivisitazione action dell’Inferno di Dante) o che dai videogiochi portano al cinema (Tomb RaiderResident EvilSilent Hill, ecc.). Le combinazioni sono molteplici, i percorsi reciproci. 

Se l’adattamento è, nella sostanza, un’operazione di traduzione da un medium all'altro, di particolare interesse è il concetto di universo espanso. Ovvero la creazione di ampie narrazioni in cui singole opere provenienti da media differenti diventano tessere di un grande puzzle narrativo. Emblematico il caso di Star Wars, che declina il proprio universo all'interno di film, libri, videogiochi, serie televisive, fumetti.

Come non citare poi il caso dei crossover, in cui convivono personaggi, ambientazioni e brandappartenenti a mondi narrativi diversi e autonomi? Le sfaccettature sono molte e richiederebbero ulteriori e corposi approfondimenti. Quello dei videogiochi è un territorio molto vasto, non privo di una propria spiccata identità dovuta alle stesse caratteristiche del medium: prima tra tutte l’interattività, elemento che va a incidere sulla costruzione delle opere e sugli effetti di senso veicolati dagli autori. Dal punto di vista della produzione, si tratta di un settore che vive della contrapposizione tra mainstream e indie (case indipendenti), tra grandi blockbuster e piccole produzioni, con tutte le sfumature del caso.

Mainstream e Indie

Il videogioco ha, infatti, ereditato una distinzione produttiva già ampiamente diffusa in ambito musicale e cinematografico, per restare in orbita audiovisiva. Una distinzione che si riversa anche sugli stessi contenuti: sebbene non sia propriamente corretto ragionare per opposti (non a caso abbiamo parlato poco sopra di sfumature), le grandi e più costose produzioni mainstream tendono a un certo conservatorismo di fondo, con l’obiettivo di ridurre i rischi e risultare appetibili al grande pubblico. Le opere indipendenti nascono da piccoli studi, talvolta anche da singoli soggetti: dimostrano generalmente un livello di sperimentazione più spiccato, sia dal punto di vista estetico che dei contenuti, e si poggiano su budget molto più ridotti. Se si è posto l’accento per ben due volte sulle sfumature è perché lungo gli anni è diventato sempre più arduo distinguere chiaramente i due mondi. Il confine si è fatto via via più sottile: le retoriche estetiche e narrative delle indie sono approdate al mainstream; titoli di origine indie vengono talvolta finanziati da grandi publisher. Siamo insomma di fronte a un contesto molto fluido, in cui produzioni milionarie come Assassin’s Creed e The Legend of Zelda convivono con piccole opere capaci di lasciare il segno, come nel caso di What Remains of Edith Finch e The Town of Light.

La varietà del racconto 

Assassin’s Creed, la celebre serie Ubisoft, mescola storia e fiction per mettere in scena l’antico conflitto tra assassini e templari. Peculiarità della serie è quella di ambientarsi, di capitolo in capitolo, all'interno di città e contesti reali ricostruiti con cura certosina (e qualche licenza poetica). Non a caso, per ogni titolo sono stati coinvolti storici ed esperti, a dimostrazione che il lavoro di squadra necessario per la realizzazione di un videogioco non si ferma a informatici e sviluppatori, ma include anche studiosi e umanisti che possano restituire accuratezza storica all'opera. Tra i vari capitoli spiccano Assassin’s Creed II (2009) e Brotherhood (2010), ambientati nell'Italia rinascimentale tra Venezia, Firenze, Roma, San Gimignano, Monteriggioni e Forlì. In The Legend of Zelda, dei giapponesi di Nintendo, rivive il tradizionale archetipo della fiaba: l’eroe, la principessa, il cattivo. Il fantasy in chiave nipponica di Zelda restituisce al giocatore epiche avventure all’interno di scenari bucolici.

Spostandoci sul versante indie, What Remains of Edith Finch (2017) racconta un viaggio al contrario, un ritorno alle proprie origini. Di stanza in stanza, il giocatore rivive la storia di ognuno dei membri della famiglia Finch. Un percorso toccante, in cui la morte viene esorcizzata per lasciare spazio a ciò che rimane. La parola chiave è leggerezza, nonostante sia appunto la morte il filo conduttore di ogni racconto. L’italiano The Town of Light (2016) non si limita a raccontare un luogo – l’ex ospedale psichiatrico di Volterra – oggi abbandonato, ma getta anche uno sguardo sul passato, sulla difficile condizione dei pazienti prima che entrasse in vigore la legge Basaglia. Ne emerge una riflessione, anche dura, sulla responsabilità di ognuno, sull'amara contrapposizione tra dentro e fuori. Sono solo alcuni esempi della vivacità e varietà produttiva che caratterizzano il settore videoludico. Un panorama composto da opere molto differenti, per generi e argomenti. Opere non sempre adatte a tutte le età; in grado sia di intrattenere che di promuovere profonde riflessioni. Come nel caso di Papers, Please (2013), titolo che affronta il tema dell’immigrazione, che parla di terrorismo, corruzione, rapporti umani e alienazione. O ancora This War of Mine (2014), gioco ispirato all'assedio di Sarajevo, che mette in scena la prospettiva dei civili: a essere indagate sono le difficili condizioni di vita durante il conflitto. Talvolta i videogiochi arrivano a capovolgere il punto di vista, mettendo in discussione ideologie consolidate. Di questi e altri temi si parlerà negli articoli successivi.

 

Andrea Dresseno si è laureato in DAMS Cinema all'università di Bologna. È responsabile dell’Archivio Videoludico della Cineteca di Bologna e project manager dell’Italian Videogame Program. Collabora da anni con riviste e blog specializzati in videogiochi e cinema.


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