Il bene comune non è la somma di singoli e individuali benefici.
La pace sociale è frutto di partecipazione alla vita politica da parte di ciascun cittadino.
Non tanto le parole che compongono questa endiadi, ma la realtà da essa indicata, è oggi davvero “a rischio”. Sì, un’endiadi, figura letteraria che esprime un concetto unitario attraverso l’accostamento di parole tramite una congiunzione. Quando diciamo “bene comune e pace sociale” in realtà esprimiamo più che un’idea; intendiamo una realtà, una realtà sempre perfettibile, ma possibile. Vogliamo dire: la pace sociale regna laddove i soggetti non perseguono ciascuno il proprio bene, ma il bene comune. Il bene comune? E cos’è? Non è il bene di tutti? Il bene di tutti i soggetti sociali? Sì e no, perché non è proprio così. L’idea naif di un bene che automaticamente favorisca tutti, appena ciascun soggetto cerchi di conseguire il proprio, non regge al banco di prova né dell’esperienza storica, né della vita quotidiana di qualsivoglia forma di comunità di vita, a iniziare dalla famiglia. Vediamo perché.
Gli uni contro gli altri?
Innanzi tutto non è la ricerca del proprio bene a prescindere da quello altrui. Non solo – evidentemente – se ciò avviene a danno degli altri, perché allora viene immediatamente meno il “bene comune”, ma anche se non si ha attenzione per il bene altrui, anche quando semplicemente si resta indifferenti a esso.
Viene da sorridere amaramente, quando si sente da qualcuna delle anziane che lodevolmente frequentano ogni giorno le nostre Chiese, che un tempo in un paese, di cui qui si tace il nome, si pregava il santo protettore per la propria comunità di appartenenza, dicendo di non badare al paese vicino, verso il quale si nutrivano sentimenti ostili. Cambiando i nomi delle località originali, nomino due luoghi a caso della Puglia, per non offendere le località calabro-lucane, dove pare che avesse luogo la pseudo-preghiera. Certamente anche qui si trattava di un’eccezione, se non forse di un’amara ironia, perché, tra l’altro, tali regioni sono, di solito, evangelicamente molto accoglienti. Da qualche parte, però, si invocavano i santi protettori con una invocazione simile a questa, da me riformulata (la santa in questione ci perdoni): “Santa Lucia benedetta, pensa a Bitonto e lascia stare Molfetta!”.
Ovviamente era una preghiera sbagliata in partenza, ma ci ricorda qualcosa di attuale, ancora più triste: il ricorso evocativo a simboli cristiani ancestrali, ma in un contesto se non di odio, almeno di indifferenza verso alcuni disperati: profughi, stranieri, zingari, barboni e quant’altro risulti troppo scomodo per la nostra coscienza, oltre che per il nostro senso estetico. Rosari e crocifissi sì, nelle aule e alle sorgenti dei fiumi, anche per dimostrare (lo si dimostra davvero così?) che si è cristiani; rosari e crocifissi come oggetti si, ma crocifissi di carne e di sangue no, anche se annegano nei mari o bruciano in baracche fatiscenti. I diversi e i disperati, si dice e si predica, non ci appartengono e pertanto devono arrangiarsi da soli.
Papa Francesco ci ricorda quanto sia vano, anzi fuorviante e pretestuoso “costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice” (EG 218). Pretestuoso, perché si vuole solo perseguire una pace comoda a proprio uso e consumo, quando invece, come prosegue il testo, “la dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi”.
Senza sovranismi
Cosa bisogna fare allora? Quale via d’uscita di fronte all’avanzare di una mentalità che si va diffondendo ed è elettoralmente pagante? Come poter invertire la tendenza di un sovranismo, che porta iscritto nella parola “sovrano” l’assurda pretesa di una superiorità che pensavamo fosse ormai stata cancellata anche come idea, oltre che come esperienza storica fallimentare? Siamo destinati ad arrenderci, se non a morire vittime del nuovo “sovranismo”? Anche noi cristiani che abbiamo un’unica sovranità: la regalità di Dio? Noi, ai quali Gesù ha detto che a Cesare spettano le monete frutto del suo conio, ma non l’adorazione divina e a Dio spetta la giusta adorazione, ma non la gestione diretta degli affari economici, lasciati alla responsabilità dell’uomo. Non è questo il senso autentico del detto evangelico: “Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mt 22,21)? Di fronte al dilagare di una pseudo-cultura che accarezza subdolamente sogni di grandezza e di sovranità a danno degli altri, che cosa resta da fare? Papa Francesco ci suggerisce l’unica risposta possibile: “Quando questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica”.
Una voce sicuramente profetica, come quella di don Tonino Bello, che anticipando questo atipico papa-profeta dei nostri anni, scriveva: “Le regole di condotta, indispensabili in ogni ordinata società, sono state soppiantate da altre regole che privilegiano la forza sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, il ‘fai da te’ sugli articoli di legge, il ‘self-service’ normativo sulle istanze del bene comune legittimamente codificate” (Scritti di pace, Luce e vita, 296ss).
Educare alla legalità
A che proposito? Le sue parole ci rimandano indietro nel tempo, al 1991, quando era stata appena pubblicato il testo “Educare alla legalità” (Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace). Non si trattava di un’esortazione, ma di una seria analisi che vedeva nella mafia e nelle diverse forme di criminalità organizzata, divenute strutture finanziarie, militari e mentali, il prender corpo di ciò che esprimeva l’esatto contrario del bene comune: la ricerca, con ogni mezzo, dell’arricchimento individuale o dei gruppi degli affiliati, a danno di tutti gli altri, anzi calcolando nulla la vita degli altri. Come papa Francesco ha ribadito, proprio in Calabria, a Sibari, la struttura mafiosa è vera e propria idolatria: idolatria del denaro e degli interessi di parte. È diametralmente opposta al Vangelo e non è assolutamente conciliabile con esso.
Educare alla legalità significa educare ad andare in senso contrario. Non c’è tempo da perdere, perché succede con l’illegalità ciò che succede con l’erbaccia: cresce a dismisura, ogni qualvolta non si interviene a coltivare la terra. Per questo don Tonino aggiungeva: “Si è incurvata la fiducia nella cultura della norma. Questo precipitare a picco della fiducia nella legge ha offerto buoni motivi per organizzare la disorganizzazione. Sicché, sono proliferate molteplici organizzazioni mafiose, fortemente modernizzate e interdipendenti, che poggiano su logiche clientelari, rappresentano un’opportunità concreta di accedere alla ricchezza, al consumo, all’accaparramento delle risorse, all’attività imprenditoriale. Di qui, l’esplosione senza precedenti della violenza omicida e della criminalità organizzata” (ivi).
Lo stesso papa Francesco, nella sezione che stiamo esaminando, propone la via alternativa al dilagare dei privilegi a vantaggio di pochi e a detrimento degli altri. Anche qui non si tratta di un’esortazione, ma di un’analisi: “In ogni nazione, gli abitanti sviluppano la dimensione sociale della loro vita configurandosi come cittadini responsabili in seno a un popolo, non come massa trascinata dalle forze dominanti”.
Dobbiamo lavorare ancora molto, affinché cresca la consapevolezza che “l’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è un’obbligazione morale”.
Occorre salire più in alto, lungo un crinale paragonabile a quello della salita di uomini solidali e attenti ai più deboli, verso una vetta più eminente. Ma è la condizione indispensabile per realizzare lo sviluppo di quella “dimensione sociale” della vita che ci fa configurare “come cittadini responsabili in seno a un popolo, non come massa trascinata dalle forze dominanti”.