Ultima tessera
Qualifica Autore: Arcivescovo di Palermo

Rita Borsellino ci ha lasciati. La ricordiamo con le parole che mons. Lorefice le ha dedicato durante l’omelia delle esequie.

 

Quando mi è giunta la notizia della morte di Rita, ho provato un sentimento interiore, una sorta di senso di solitudine. E mi sono detto: “Ora a Palermo siamo più soli”. Ma porto ancora nel cuore lo sguardo di Rita del 19 luglio scorso, quando lei stessa ha voluto la benedizione di quella targa collocata sotto l’albero di ulivo, un segno che in via D’Amelio parla da sé, come è capace di parlare un segno pur senza proferire parole. Su quella targa, citando Antonino Caponnetto, in chiusura si legge: “A te che sei qui a fare memoria, ricorda che sei parte di questa storia e devi continuarla”. 

Proprio il 19 luglio scorso Rita, in un’intervista, ebbe a dire: “Il modo migliore per ricordare oggi Paolo Borsellino è ‘fare memoria’. Il ricordo è qualcosa di cristallizzato nel tempo, fare memoria significa altro, vuol dire non ricordare un giorno all’anno portando una corona di fiori sul luogo dell’eccidio ma operare ogni giorno perché il passato non torni, perché a partire dai fatti del 1992-1993 si costruisca futuro e futuro libero. Si può proseguire la sua opera attraverso la memoria operante, viva, facendo in modo che la lezione di Paolo rimanga attuale e con lui il messaggio che ha voluto dare soprattutto ai giovani, di rifuggire dalla mafia e di aspirare al ‘fresco profumo di libertà senza il puzzo del compromesso’” (Intervista a Liberiamo del 19 luglio 2018).

Rita ha fatto suo il testamento morale di Paolo Borsellino, quel testamento che il magistrato palermitano, il 25 giugno 1992, affidò alle parole pronunciate nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, un mese dopo l’assassinio di Giovanni Falcone e qualche settimana prima di essere a sua volta assassinato: “La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte – proprio perché meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col male – a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.

Queste parole hanno diradato quel sentimento di solitudine che era prevalso in me. Ho subito scrutato quel Libro dove Rita attingeva e dove attinge ogni cristiano, nel silenzio della sua camera, quella interiore, senza nessuna ostentazione. E aprendo il Vangelo mi sono scontrato ancora una volta con le parole del discorso della Montagna, le Beatitudini. Parole che sembrano essere così paradossali e inattuali, ma che continuano a rendere presente la logica di Dio in mezzo alle donne e agli uomini del nostro tempo, così diversa da quella umana. Parole che ancora una volta ci fanno vedere la storia degli uomini – quella nostra, della nostra Palermo, della nostra Italia, del mondo intero – alla luce dei criteri di Dio. 

Rita è stata donna ed è donna che scruta la vita in profondità, che esamina la storia, e lo fa anzitutto libera da ogni condizionamento personale o di parte. Scruta il libro della storia alla luce del Vangelo. 

Scruta la ‘parola’ da discernere con sapienza e libertà interiore nel libro della vita, quella che è impressa nelle pagine della storia, non la storia consumistica, quella dei rotocalchi, non la storia fatta di false notizie, di fake news, ma la storia degli uomini che portano un nome, che portano il fardello della vita quotidiana, che portano il fardello soprattutto impresso da altri uomini. 

Ma anche quella Parola che è contenuta nelle Scritture, nel Libro (la Bibbia) che Dio ha donato all’umanità come compagnia per decodificare il senso più vero della vita, lì dove si può attingere il bene più prezioso di ogni uomo e di ogni donna: la libertà, che comporta sempre un’assunzione di responsabilità, per rendere possibile la libertà degli altri – questa è la vera libertà! – per una città degli uomini segnata dalla giustizia e dalla pace. 

Un Vangelo interiorizzato nel silenzio, nella semplicità, nell’umiltà, mai ostentato, sempre praticato in una bella condotta umana, in una femminilità compiuta, nel segno della sobrietà ma anche dell’audacia della parola accompagnata da coerenti gesti umani. 

Sì, Rita, è una donna che guarda alla storia con gli occhi di Dio, con la logica delle Beatitudini e del giudizio di Dio contenuto più avanti nello stesso Vangelo di Matteo al capitolo 25, alla luce del primo e dell’ultimo dei cinque discorsi di Gesù narrati dall’evangelista: “Avevo fame, sete, ero malato, prigioniero, forestiero. Mi avete sfamato, dissetato, curato, visitato, accolto…” (cfr. Mt 25, 31-46). 

Le Beatitudini per i cristiani sono il metro ultimo e definitivo della storia. Il libro della storia non sarà aperto e letto dai potenti, dai grandi, dagli oppressori, dai calunniatori, ma da quanti si sono mantenuti giusti, dagli operatori di pace, dai ricercatori della giustizia, dai miti, dai puri di cuore, da chi non ha un cuore doppio, avvezzo al compromesso, alla idolatria del denaro e dell’io voraginoso. Da chi ha un cuore limpido e retto come quello di Rita.

La fede vera ci fa vedere e costruire la città degli uomini secondo la logica delle Beatitudini che sono state una sorta di filo rosso di tutta l’esistenza di Rita Borsellino, come del fratello Paolo, come di un altro grande palermitano, don Pino Puglisi.

Le Beatitudini ci aprono a una visione più ampia della vita: vi fa irruzione il mondo, con i suoi conflitti e le sue lotte (potenti, umili, ricchi, affamati, superbi…), ben oltre il quotidiano della vita di una donna professionista, moglie, madre, nonna, impegnata nel sociale e in politica. Chi frequenta le Beatitudini, chi frequenta Matteo 25, 31-46, il giudizio del Figlio dell’uomo sull’intera storia umana, chi frequenta il Magnificat, il cantico di Maria (Lc 1, 39-56), non può rimanere ripiegato su se stesso, relegato nel suo piccolo mondo; i suoi orizzonti si allargano. 

Da Rita possiamo imparare qualcosa dell’umiltà e dell’audacia della vera fede. La fede che si nutre autenticamente del Vangelo, non quella ostentata da atti religiosi esteriori o strumentalizzata per fini di potere mafioso o politico, che non è mai ripiegamento intimistico o rassegnazione alla mediocrità, che non coltiva un “io minimo” senza mai mettersi in gioco. 

Il sorriso e la gioia di Rita, quel sorriso e quella gioia che, nonostante la sofferenza della malattia, ho colto sotto l’albero di via D’Amelio il 19 luglio scorso, deriva dalla capacità che lei aveva di passare dalla storia personale – una storia profondamente solcata (e sappiamo quanto!), con i mille dubbi che si porta dentro, le mille domande e le attese di giustizia – alla storia di un popolo, in particolare alla storia di questa Città, e alla storia dell’intera umanità. Soprattutto quella degli ‘scartati’ dai potenti di turno e dei ‘vinti’ della terra, quelli che la Bibbia chiama i “poveri e i prediletti del Signore” e che giudicheranno la storia e i grandi di questo mondo. Tale è il senso delle Beatitudini: sono questi, non i potenti, che giudicheranno l’intera storia. 

La vera umiltà, quella che noi abbiamo conosciamo sul volto di Rita, è di chi sa di poter fare con la materia ordinaria di cui dispone qualcosa di meraviglioso per gli uomini e dunque per Dio; per gli uomini e le donne di ogni tempo; per quelli di questo nostro tempo. E a questo tutti siamo chiamati. Oggi Rita ce lo ricorda. A questo tutti siamo chiamati!

Palermo, 17 agosto 2018


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