Unità e diversità, religioni e libertà: il pensiero religioso del leader nonviolento e le sue aperture profetiche.
A cinquant'anni dalla morte di Aldo Capitini è più che mai utile tornare a confrontarsi col suo pensiero e col suo originale magistero intellettuale e morale. Non vi è dubbio che il pensatore umbro abbia pagato la sua perifericità rispetto ai filoni dominanti delle culture contemporanee (quello liberale, quello marxista e quello personalista) e la sua radicalità nel tradurre le proprie convinzioni in una prassi di vita esigente e rigorosa.
La doppiezza, infatti, non può che essere strutturalmente estranea al pensiero capitiniano, il quale richiede, a pena della sua confutazione, una verifica permanente di carattere personale e comunitario. Si è soliti definire Capitini come un pensatore “religioso” e a giusta ragione, purché ci si intenda bene sul senso da dare a questa definizione. Definizione che è, peraltro, assai ambivalente se non decisamente ambigua anche all’interno del pensiero teologico attuale e del Novecento.
Diertich Bonhoeffer parla di un cristianesimo non religioso: “Noi non possiamo essere onesti senza riconoscere che ci occorre vivere nel mondo etsi Deus non daretur …Davanti a Dio e con Dio viviamo senza l’ipotesi Dio”. E il filosofo francese Marcel Gauchet parla del cristianesimo come della “religion de la sortie de la religion”, nel senso di una fede, di un cammino, di un processo di umanizzazione, oserei dire dell’uomo e di Dio stesso. E d’altra parte Dio è di per sé certamente un termine carico di ambiguità (e quanto su questo Capitini sarebbe stato d’accordo!). Non dimentichiamo che le prime generazioni cristiane incontrarono sulla loro strada non l’assenza di Dio ma tante immagini di Dio che ci hanno insegnato a essere atei. Tutto questo per dire come il rapporto di Capitini con le diverse componenti, vuoi ovviamente conservatrici vuoi anche innovative del mondo cattolico e cristiano, sia stato complesso, come d’altra parte fu difficile il rapporto con la Sinistra che di Capitini mal tollerava proprio la radicalità del pensiero nonviolento, la vena religiosa e quella fuga utopistica che apparve l’omnicrazia(così sorprendentemente sintonica con la riflessione della Weil sui limiti strutturali di una democrazia nei e dei partiti) e della quale Sinistra Capitini contestava la chiusura ideologica. In questo senso certo l’intellettuale perugino fu un uomo solo, con una piccola koinonia di amici e di allievi, ma l’eco della sua riflessione e la sua testimonianza permangono feconde dentro ogni “mondo” che sia animato da una passione autentica per gli uomini, per la loro liberazione dallo sfruttamento, dalla violenza, dalla macro e microfisica del potere. Non vi è dubbio che Aldo Capitini sia stato innanzi tutto un grande spirito religioso. E che, almeno a mio avviso, non è possibile separare in lui la religione da nessuno degli altri ambiti della sua riflessione e della sua azione. Ma in che senso dobbiamo intendere questo termine per comprendere bene la posizione capitiniana? Religione non è certo per lui, debitore ritengo del pensiero kantiano, l’impalcatura dogmatica e l’apparato istituzionale che formano le chiese visibili, ma la comunità morale invisibile degli uomini giusti. Penso che in Capitini non ci fosse quella radicalità del male che faceva dire al grande filosofo di Koninsberg che l’uomo è un legno storto destinato a non diventare mai diritto.
Realizzazione dell’uomo
Il pensatore umbro aveva una concezione antropologica che certo non misconosceva le fragilità dei cammini umani e storici, ma nell’ambito di una sostanziale e sym-patica fede nell’uomo. Cito una frase emblematica in questo senso. “Dopo aver lottato contro gli eserciti e le guerre il nonviolento naturalmente tende ad altro (…) smobilitare polizia e prigioni, ed ha fiducia che questo sia possibile, perché crede alla superabilità del male e all’attuabilità di migliori rapporti umani”. E questo, in senso capitiniano, è già un elemento religioso centrale. Per Capitini, la religione non è proiezione alienata delle migliori qualità umane fuori di sé. E la piena realizzazione dell’uomo non è, conseguentemente, la riappropriazione di queste qualità. Non c’è in lui la risoluzione antropologica della teologia.
Al contrario l’antropocentrismo che non vedesse il cielo stellato sopra di sé e la compagnia degli altri terrestri accanto a sé finirebbe per accartocciare l’uomo su stesso, togliendogli il respiro, lo spiritus, l’orizzonte entro cui rendere bella la propria esistenza. La religione è per Capitini quest’orizzonte, non toglie qualcosa all’uomo ma aggiunge, apre, fa avvertire questo legame non solo con i viventi contemporanei, ma con quelli del passato e del futuro. La religione non è una chiusura identitaria, né una nobile tradizione, né un’assicurazione sulla vita e il suo oltre.
Niente al filosofo perugino è più distante di ciò. E fu proprio contro questa idea e pratica della religione come elemento di separazione o di ipocrisia conformista che si batté per tutta la vita con acutissimi momenti di vis polemica, fino alla richiesta dello sbattezzo inviata il 27 ottobre del 1958 all’Arcivescovo di Perugia, all’indomani della triste vicenda di Prato dove monsignor Fiordelli bollò i coniugi Bellandi, sposati con rito civile, come pubblici concubini. Tuttavia l’iniziativa per la riforma religiosa era in vita fin dal 1946 con la costituzione del cosiddetto Movimento di Religione attraverso cui si auspicava non solo una profonda riforma interna a tutte le confessioni di cui fossero lievito coloro che costituivano nei diversi luoghi i Centri per la riforma religiosa, ma anche la conoscenza delle altre religioni e del loro patrimonio spirituale, la lotta contro ogni forma di intolleranza, la valorizzazione della coscienza individuale e comune capace di andare oltre e di dar vita a un più libero, largo e profondo sentimento religioso, vero fondamento, come in Ghandi e in Tolstoi, di un ordine del mondo fondato sulla giustizia, la nonmenzogna, la nonviolenza, il potere di tutti, il rispetto della dignità di ogni abitante della terra.
Strumenti e mezzi
Nella stagione di cui stiamo parlando (preceduta dall’opera Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza 1937) e a cui seguirà dopo il Quarantotto, quella della pubblicazione delle Lettere di Religione, l’esperienza dei COR (Centri di Orientamento Religioso) e testi importanti come Religione aperta (Guanda,1955), La compresenza dei morti e dei viventi (Saggiatore,1966), Severità religiosa per il Concilio (De Donato Editore, 1966), troverà, tra i molti autorevoli interlocutori, cattolici, protestanti, baha’i, laici, una strana e geniale figura di prete che, dopo aver commemorato a Firenze Ernesto Buonaiuti, il leader modernista morto nella più completa solitudine il 20 Aprile del 1946, subirà la sua stessa condanna di scomunica vitando: Ferdinando Tartaglia.
Il sodalizio con Tartaglia durerà solo pochi anni, scegliendo l’ex prete parmense, la solitudine ed il ritiro fino alla morte che avverrà nel 1988 e dedicandosi il pensatore umbro, sempre più intensamente all’elaborazione intellettuale e all’azione pratica, con i Cos, i Cor e anche ispirando iniziative di massa pacifiste e nonviolente come le Marce della Pace Perugia-Assisi, la cui prima edizione, svoltasi il 24 Settembre del 1961 terminò sull’ormai noto prato della Rocca con gli interventi di personalità di diverso orientamento culturale, politico e religioso, come ovviamente Capitini stesso, Arturo Carlo Jemolo, Guido Piovene, Renato Guttuso, Ernesto Rossi.
Il saluto della città fu portato da Piero Mirti un giovane avvocato laico allora consigliere comunale e non dal Sindaco democristiano che, come del resto gran parte della Chiesa e degli ordini religiosi guardarono l’iniziativa con estrema diffidenza.
Se pensiamo all’oggi, quanta ragione aveva Capitini ad affermare che “una marcia non è fine a se stessa, continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività”! Ma torniamo per un attimo su Ferdinando Tartaglia e sul motivo di convergenza con la riflessione e la sensibilità religiosa capitiniana.
Tartaglia è stato un grande distruttore delle immagini di Dio, anche di quelle prodotte dalla sua Chiesa; per lui Dio era sempre radicalmente al di là di ogni possibile immagine, Dio era la novità assoluta, la negazione di qualsiasi legame col passato, di qualsiasi dogma, di qualsiasi teologia.
Col suo stile che tendeva a una estrema tensione linguistica, in Esercizi di verbo,( Adelphi 2004), scriverà: “Io non sono demiurgo. Io non sono teurgo.Io non sono ungitore di passato.Io sono urgitore di futuro.Io sono futurgo”.
Mentre lo sto scrivendo il mio correttore fa strage di rosso come a mettere il sigillo su parole che alludono forzandosi e quasi distorcendosi a un futuro che deve venire.
In una poesia intitolata Piccolo dialogo con Juan de la Cruz scrive tra l’altro: “non cerco conoscenza ma solo trascendenza,non cerco la credenza ma solo trascendenza,non cerco la chiesenza ma solo trascendenza, non cerco immortalenza ma solo trascendenza,neanch’io cerco più Dio ma solo trascendenza, non cerco trascendenza ma oltre trascendenza.Io cerco la novenza che non è più novenza”. Questa idea di una religione che è sentimento dell’urgenza del nuovo, del nuovo puro, della rottura di steccati, della consapevolezza della finitezza e della premonizione che qualcosa sopraggiungerà a redimerla, accomuna per un tratto questi due uomini così originali e diversi.
Però Capitini non aveva l’impazienza di Tartaglia, la sua ossessiva nostalgia del puro dopo, della pura futurità; certo anch’egli parlava dell’insufficienza radicale delle attuali forme religiose, dell’esigenza di un nuovo fondamento universale della religione, ma anche della necessità di superare ogni solitudine e di dar vita con apertura, tenacia e perseveranza a un lavoro di lunga lena fondato sulla persuasione interiore che ha i suoi tempi e i suoi costi: “Le difficoltà non impediscono di cominciare, ogni musica ha cominciato prima che tutti ascoltassero”.
Centrale nel pensatore nonviolento è l’idea della religione come libera aggiunta.
Per Capitini religione è il massimo confine della libertà nella quale, in un certo senso, svaniscono le diversità etniche, confessionali, ideologiche. È capacità di sentire l’unità e la dignità di ciò che vive e la tessitura comune dell’universo. “La religione è farsi infinitamente vicino ai drammi delle persone. Essa è spontanea aggiunta (…)non sostituzione violenta che io voglia fare all’infinita capacità di decidere dellecoscienze.(…) Io voglio aggiungere, non togliere. La vita religiosa per me non è un elemento che debba essere rimproverato se assente, elogiato se presente; religiosamente non giudico, mi aggiungo, do il contributo personale, la presenza.”(Vita religiosa).
Aperture
Forse la parola chiave della concezione capitiniana della religione è apertura. Apertura a ciò che è minimo, ai sofferenti, agli ultimi, ai diversi da noi, agli animali, a coloro che incontriamo e di cui desideriamo la vita, ai morti di cui sentiamo la presenza. La religione non è oppio dei popoli, ma avere viscere di misericordia e fermento di giustizia. L’amore religioso è apertura a tutti come scriverà in Religione aperta. Ogni incontro non chiude in un recinto, in una fusionalità asfissiante, in una conventicola ma apre, aggiunge e, in questo, esso stesso si rinnova e si apre continuamente. “Nel mondo occidentale Gesù è stato l’alto maestro del fare aperto spinto fino all’estremo. Già grandi cose aveva detto Socrate sul rendere il bene invece del male. Ma Gesù ha posto questo in tutta la sua apertura, nella distinzione tra peccato e peccatore, perdonandogli” (Religione aperta). Il peccato grave è il non aprirsi, non contrastare il male con il bene. “Probabilmente è questo che intendeva Gesù dicendo che il peccato gravissimo è quello contro lo Spirito”. Un peccato contro il respiro, la libertà, la coscienza che farà dire a Capitini in occasione del primo Congresso per la Riforma religiosa a proposito della conciliazione del 1929: “La Chiesa di Roma perse l’ennesima occasione di scegliere tra il Vangelo e il dominio. E io debbo qui ricordare che, con altri amici, ci opponemmo al fascismo proprio in nome della religione”.
La religione è per Capitini anche esperienza liberante della compresenza nella quale nulla va definitivamente perduto nell’uno-tutti che è Dio il quale “rinuncia ad un nome per essere più intimo ai nomi di tutti”. Quante suggestioni feconde nel suo pensiero, quante brecce aperte nella fede di tanti e quanti passi compiuti dal Concilio, in avanti e indietro. E ancora in avanti. Quante crepe e quanti collassi ideologici da lui intravisti,s ma anche quanti risorgenti fantasmi che con nomi nuovi indossano i vecchi panni dell’autoritarismo, del razzismo, dello sfruttamento, del bellicismo. Il suo tempo deve ancora venire o, forse, dovrà sempre venire: la sua inattualità sarà, forse, permanentemente attuale. Per molti di noi sentirlo vicino è come una medicina contro la rassegnazione e l’impazienza paralizzante e per alimentare la speranza che una musica nuova allieti il mondo e la possibilità di scriverne insieme almeno qualche nota o qualche rigo sul pentagramma della vita personale e sociale. Nell’antica Torre campanaria del Municipio di Perugia, dove ha lungamente vissuto Capitini, da sentinella vigilante e attenta, ha compreso qualcosa di essenziale sul segreto dell’uomo planetario che si nasconde sotto la pelle ricca e preziosa del colloquio corale delle diversità e ha potuto allargare lo sguardo e forzare l’aurora di un mondo nuovo.