L'Europa dimentica troppo spesso la sua vocazione originaria di culla di diritti. Oltre che in Libia e in Turchia, anche sulla rotta balcanica i migranti subiscono torture. 

 

Non solo Lampedusa, il Mediterraneo orientale, i lager libici, la frontiera greco-turca. Preda di paure e impulsi irrazionali, l'Europa, dimentica dei diritti, si blinda ovunque. Con violenza inaudita.

Cominciamo dal nostro Nord-Est un percorso attraverso le “altre” frontiere, teatro di violazioni orribili, ma anche della solidarietà di tanti volontari. 

Abbiamo chiesto a Gian Andrea Franchi, che, con sua moglie Lorena Fornasir, è impegnato a Trieste nell'aiuto ai migranti che riescono ad arrivare dalla “rotta balcanica” di spiegarci che cosa succede su quei confini. Fino al 28 marzo si sono potuti prendere ancora cura di decine di profughi, con un'autorizzazione ufficiale. Poi il blocco. Sanno che sono stati allestiti due ricoveri, ma non possono vederli. Di sicuro l'epidemia peggiora ulteriormente la situazione, perché blocca a Trieste molti che vorrebbero proseguire e perché aumenta su tutta la rotta la diffidenza della popolazione. In Slovenia il regime ha aperto un nuovo campo e molti avanzano per non esservi rinchiusi.

Il cuore del controllo della frontiera nord-est dell'UE è la Croazia, che dovrebbe entrare in area Schengen quest'anno. È ormai arcinoto che la polizia croata fa del suo peggio per arginare il flusso costante, se pur variabile, di migranti della cosiddetta “seconda rotta balcanica” – quella dal 2018, mentre la prima era iniziata dal 2015, quando però i confini erano ancora aperti. I migranti, che si possono anche chiamare “profughi”, provengono da una vasta area che va dal Bangladesh allo Yemen, al Nord Africa (più recentemente) e comprende paesi come l'Afganistan, il Pakistan, la Siria, l'Iraq. L'itinerario si addensa da questi paesi in Turchia; da qui l'ingresso in Europa attraverso la Grecia. Una seconda rotta viaggia dalla Grecia all'Albania, al Montenegro alla Bosnia Erzegovina, con varianti serbe, per concentrarsi nel cantone bosniaco di Una-Sana, principalmente nelle piccole città di Bihac e Velika Kladuša. 

Il numero, ovviamente assai fluido, e non precisabile, dovrebbe aggirarsi sui cinque-settemila, che premono ai confini con la Croazia. Queste persone, in prevalenza giovani uomini, ma anche molte famiglie con bambini e minori soli, sono animate da una disperata tenace volontà di andare in luoghi – l'idealizzata Unione Europea, prevalentemente il suo centro-nord – in cui immaginano di poter vivere una vita degna di essere vissuta, impossibile nei loro paesi, devastati dagli appetiti occidentali (è questo un punto essenziale). Non pochi, però, hanno anche parenti e amici che già vivono in Europa. La Croazia non solo rifiuta di applicare quello che, secondo la legislazione internazionale, è il diritto di accoglienza, vagliando i casi previsti, ma, nel contrastare il passaggio attraverso il suo territorio, usa pratiche di grande violenza e, direi, persino ferocia, che arrivano sino alla vera e propria tortura. Su questo c'è ampia documentazione (cfr. Border violence monitoring): ma noi lo abbiamo letteralmente toccato con mano su corpi feriti, umiliati o, appunto torturati, come nel caso di Umar, a cui la polizia croata ha bruciato la gamba con una sbarra di ferro rovente (cfr. petizione http://chng.it/NzvC2qtg6h, con oltre 68.000 firme).

Noi andiamo in Bosnia, mediamente ogni 40-50 giorni dal giugno 2018, portando principalmente denaro, raccolto con donazioni attraverso la nostra associazione Linea d'ombra, che spendiamo in aiuti concreti e progetti con i volontari locali e internazionali di Bihac, V. Kladuša e Kljuc. Il nostro scopo, però, è anche e soprattutto di informare, denunciare, costruire relazioni con i locali, con gli internazionali, formando reti e aree di solidarietà. Il nostro scopo è soprattutto politico: contrastare società basate sull'intolleranza, sull'individualismo, sull'odio.

Ma è attiva una Trieste solidale...

La Trieste solidale è purtroppo minoritaria rispetto alla Trieste indifferente o ostile. Esistono essenzialmente – le semplificazioni sono sempre arbitrarie – tre aree solidali. Quella tradizionale di matrice cristiana – Caritas e altre, fra cui Sant'Egidio e S. Martino al Campo che gestisce il centro diurno e quello notturno di via Udine; quella di sinistra radicale, fra cui importante il collettivo Nocpr no border, che agisce in maniera significativa nei confronti del Centro per il rimpatrio di Gradisca d'Isonzo e la nostra associazione Linea d'Ombra. Intorno a quest'ultima si è formato un gruppo, il cui nucleo è di circa una dozzina di persone, che agisce regolarmente nella piazza della stazione di Trieste. È importante sottolineare che, dopo diversi tentativi andati a vuoto, il gesto di Lorena che curava i piedi feriti dei ragazzi che ogni giorno arrivano a decine dalla rotta dopo 10-20 giorni di durissimo viaggio (ci sono anche diverse decine di morti di cui non parla nessuno), fotografato e diventato virale sui social, ha funzionato come coagulante. In poche settimane si è formato un gruppo stabile di volontari ma anche di cittadini che portano in piazza la loro solidarietà materiale e umana. Nel corso delle settimane, si sono aggiunti anche i giovani medici e infermieri dell'associazione Don Kisciotte, essenziali nel ruolo di prima diagnosi e intervento più specialistico.

Oltre al primo intervento sanitario, il gruppo fornisce scarpe, vestiario e alimenti di prima necessità. Fondamentale è la collaborazione con le varie realtà associative fra cui il Centro di San Martino al Campo, che ha messo a disposizione un piccolo locale per le cure mediche e il primo soccorso sanitario di cui usufruiamo come associazione.

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