Qualifica Autore: Monaco della Comunità di Bose di Ostuni https://www.monasterodibose.it/fraternita/ostuni

La morte, con l'emergenza della pandemia, è messa al centro del discorso pubblico, portata al cuore dell'umanità. È una realtà non più solo individuale e privata ma collettiva e comunitaria.

 

Nei tempi d'emergenza emergono le contraddizioni più o meno latenti nel tempo dell'ordinarietà. Una di queste si è resa visibile nell'immagine dei camion militari in colonna, carichi di casse da morto che, all'imbrunire, escono dal cimitero di Bergamo

e si muovono verso i forni crematori della pianura padana. I morti sono solo bare, oggetti inanimati, privati di quel nome che racchiude una storia. Corpi che scompaiono all'improvviso, che sono smaltiti in fretta. Diventa così palpabile quel processo di separazione e invisibilizzazione dei malati e dei loro parenti praticato sino a quel momento: essi sono come "inghiottiti in una specie di buco nero esistenziale" (D. Sisto). I malati sono morti completamente da soli, intubati e isolati nei reparti di terapia intensiva. E i familiari soffrono di non condividere, di non vedere, di non toccare i loro corpi, prigionieri del rimpianto di non esserci stati in quel momento. "Solitudine nella morte, solitudine nell'ultimo addio" (G. de Luna).

Presenza-assenza Eppure quel convoglio, sotto gli occhi di tutti, ha dato visibilità ai quei morti: non si possono più non vedere. Vengono addirittura portati al cuore della comunità. Così la morte al tempo del Coronavirus è rimessa al centro del discorso pubblico. È una realtà non più solo individuale e privata ma collettiva e comunitaria. Diventa un fatto pubblico. Chiede di essere assunta come tale e interroga la politica, l'economia, la società, la cultura, la sanità... La domanda della morte è una domanda sull'umanità della nostra società.

In questo maneggiare la morte ci troviamo totalmente impreparati. Un'impreparazione frutto della prolungata rimozione sociale e culturale della morte. Quello che sta succedendo impone di riflettere sul nostro modo di relazionarci alla morte e sul processo di elaborazione del lutto. E questo a livello pubblico e comunitario.

Poiché le procedure di smaltimento in massa dei morti hanno brutalmente interrotto il processo del lutto strappando la persona morta dalla relazione con i suoi parenti, domani, quando sarà di nuovo possibile, al di fuori del pericolo di contagio, bisognerà creare delle cerimonie pubbliche e civili che mettano di nuovo al centro le singole personalità di coloro che sono morti e gli restituiscano una presenza significativa nella vita della comunità. 

Lo dobbiamo a loro, per riconsegnare quella dignità che gli è stata negata, e ai familiari – ma anche a tutti noi! – per portare avanti il processo del lutto. Il rito funebre ci consacra come esseri umani e come volti personali contro la potenza annichilente della morte. Scrive Marina Sozzi: "Quando siamo in lutto è come se fossimo strabici: un occhio è orientato a fare i conti con la perdita, a ripensare il defunto, a coltivare la memoria. L'altro, invece, si occupa della vita che continua, della costruzione, della riscoperta dell'universo esterno". Il processo del lutto cerca di armonizzare le due prospettive opposte verso cui si orientano gli occhi di chi soffre della perdita. In ciò il rito funebre assume un ruolo essenziale. Se non si riesce a dare una parola pubblica e comunitaria a questo dolore, che riguarda tutti, l'angoscia "sussurra al cuore oppresso e gli ordina di spezzarsi" (W. Shakespeare). Se non si tenesse conto di questo a livello pubblico, cessata la tempesta, oltre alla scomparsa di una generazione, gli anziani, nell'anonimato, si rischiano anche duraturi danni psichici e relazionali in coloro che non riescono ad armonizzare lo strabismo del lutto.

La centralità della morte nel discorso pubblico fa emergere un'altra contraddizione. Lella Costa in un'intervista all'inizio dell'epidemia diceva: "Noi, figli del boom, siamo carne da cannone quando ci impongono di non andare in pensione, di lavorare sempre di più, di rimboccarsi le maniche e anche di contribuire a mantenere figli e nipoti. Poi arriva questa malattia e ci dicono, in sintesi, che siamo cagionevoli ed è meglio tenerci in casa". Oltre alla morte, l'altra grande rimossa era – non a caso – la vecchiaia, il cui esito naturale è la morte. La morte non è un incidente di percorso in una vita che si pensa quasi immortale e invincibile. Siamo vissuti negli ultimi decenni all'insegna dell'onnipotenza e dell'onniscienza. Pensavamo di aver relegato una cosa come un'epidemia al passato (la peste di Boccaccio e di Manzoni) o solo a categorie a rischio per i loro comportamenti (l'aids) o ai paesi poveri del sud del mondo: qualcosa che non ci riguardasse... Oggi invece ci scopriamo tutti minacciati dal contagio e insieme minaccia per altri. Ci misuriamo col vivere nell'incertezza e nella provvisorietà. Con il limite della morte facciamo i conti con la presenza in noi di una fragilità biologica. E questo collettivamente.

Oltre la nostalgia

Scoprire di essere mortali è percepire una dimensione costitutiva dell'umano. Nel rapporto con la morte ne va del rapporto con la vita presente. Quando Benedetto nella sua Regola, scrive: "Avere ogni giorno presente davanti agli occhi la morte" non lo fa in disprezzo della vita. La memoria della morte, proprio perché ci ricorda l'unicità di ogni vita e l'irreversibilità delle scelte, è un invito a una piena assunzione e responsabilità della propria vita. A che cosa diamo priorità? Quali sono i nostri obiettivi? A che cosa diamo valore e peso? Per che cosa vale la pena morire? Se fosse il mio ultimo giorno come vorrei viverlo? La memoria della morte ci concentra sul presente, l'unico tempo che abbiamo liberandoci dalla nostalgia del passato e dalla proiezione in avanti, nel futuro.

Genera in noi, inoltre, il senso dello stupore, proprio perché le persone e le cose che sono potrebbero non esserci più o non esserci affatto. Realizziamo che quello che normalmente diamo per scontato non lo è affatto: dall'abbracciarsi al camminare a piedi nudi sull'erba... Questa propensione allo stupore davanti alla contingenza di fatti e cose, che diamo di solito per assodati, ha una forte valenza politica e sociale. Diventa "un'attitudine a considerare i fatti e le situazioni non come il prodotto di una ineluttabile necessità, ma come il risultato di configurazioni particolari che si sono costituite nel tempo, che avrebbero potuto essere tutt'altro e che sono destinate a cambiare" (D. Fassin).

L'epidemia ha creato da destini individuali una comunità di destino. È l'esperienza che ci accomuna: tutti possiamo morire, tutti possiamo venire contagiati e contagiare. Sperimentiamo come dalle proprie e altrui scelte dipenda la vita di tutti. Siamo tutti sulla stessa barca e ne possiamo uscire solo insieme. Da qui può nascere un essere comunità che metta al centro il limite e la fragilità umana. Edgar Morin ha scritto: "Il Vangelo dice: 'Siamo fratelli, viviamo da fratelli, e saremo salvati'. Io dico: 'Siamo fratelli, viviamo da fratelli, perché siamo perduti'. Senza imporre a nessuno questo vangelo della perdizione, credo che la coscienza umana debba integrare l'incertezza, l'angoscia e la presenza della morte. E l'unica via per superare l'angoscia è la partecipazione, la comunione, l'amore. Il solo modo di sopportare il niente che ci circonda è di vivere poeticamente, amorosamente, la nostra condizione". È quello a cui assistiamo nei gesti di solidarietà e di empatia che costellano questi giorni. Gesti gratuiti e spontanei. Se tali dimensioni venissero interiorizzate oltre l'emergenza diventerebbero domande per un cambiamento di vita a livello personale e collettivo. Di chi si prende cura la politica e come? Quali sono le situazioni di carenza e di fragilità a livello umano verso le quali diventa prioritario agire? Come è indirizzata la spesa pubblica? Forse si avrebbe un approccio diverso con chi sta in carcere e con le persone migranti. E potrebbe anche risolversi finalmente in un ampliamento empatico e solidale del nostro orizzonte: divenire consapevoli che, al di là dei nostri confini, vi sono persone e popoli che vivono in permanente emergenza. Questo comporta mettere la morte come domanda al centro della comunità.


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