Proseguiamo il viaggio tra le parole cardine che, dal primo numero, hanno accompagnato il progetto editoriale di Mosaico di pace. Trent'anni al servizio della pace, della giustizia
e della cura del creato. Accanto ai poveri.

 

La Chiesa del grembiule è l'espressione tipica con cui mons. Tonino Bello – promotore e sostenitore ideale di Mosaico di pace – amava definire e vivere la Chiesa, rifacendosi al gesto di Gesù, che nel momento sublime dell'istituzione dell'Eucarestia

"sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti", prese un asciugamano (il grembiule) versò l'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto" (Gv 13, 3-5). Ed era espressione dell'attenzione e dell'impegno per i poveri e i piccoli che la madre, terziaria francescana, gli aveva instillato fin dalla più tenera età.

Già nel Primo Testamento è ribadita l'attenzione di Dio verso i piccoli e i poveri (la giustizia di Dio è proprio prendere le loro difese contro l'arroganza dei ricchi e dei potenti), che vengono individuati negli orfani, nelle vedove e negli stranieri, con l'elogio per chi, come Tobi, riconosce: "Facevo spesso l'elemosina a quelli della mio gente, davo il pane agli affamati, l'abito agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo" (Tb 1, 16-17) come quella volta che, "lasciando intatto il pranzo tolsi l'uomo dalla piazza e lo posi in una camera in attesa del tramonto del sole, per poterlo seppellire" (Tb 2,4).

Questo spirito si trasmette al Nuovo Testamento, come appare nel Cantico di Maria, (Lc 1,46-55), che si ispira al Cantico di Anna (1 Sam 9, 1-10) e loda il Signore onnipotente e santo che "ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote". Gesù soccorre gli ammalati più segregati, come i lebbrosi, convalida gli emarginati come i pubblicani e le prostitute, gli stranieri come il centurione romano o la cananea, e i samaritani, allora considerati peggio che gli stranieri, e accoglie con tenerezza i bambini, contro le precauzioni degli Apostoli, mentre – nella figurazione dell'Ultimo Giudizio (Mt 25, 32-46) per "tutti i popoli", il Figlio dell'uomo approva coloro che hanno soccorso chi aveva fame o sete, chi era ignudo, malato o carcerato, come l'avesse fatto a Lui stesso, mentre condanna chi l'ha rifiutato in quei poveri e bisognosi.

Per questo Gesù inizia e quasi propone come sintesi delle beatitudini (Mt 5, 3-12): "Beati i poveri in spirito". E così, dopo aver sentenziato che nessuno può servire due padroni perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza (mammona – v. Lc 16, 13): "Quant'è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio: è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio" (Lc 18, 24-25: anche se tutto "è possibile a Dio", ivi, 27).

In una parabola (Lc 16, 19-31), manda in seno ad Abramo Lazzaro perché povero, e agli inferi, tra i tormenti, il ricco epulone che ha ricevuto i suoi beni, mentre Lazzaro ha ricevuto i suoi mali.

La Chiesa, fin dal suo inizio, ha avuto questo atteggiamento, dai primi cristiani che "stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno (At 2,44), con l'attenzione che l'Eucarestia sia un pasto fraterno, senza divergenze tra ricchi e poveri (v. I Cor 11,17-34). Nel corso dei secoli poi ha sempre onorato chi, per Cristo e il Vangelo, per maggior libertà interiore e per dedicarsi al servizio degli altri, ha rinunciato a tutti i suoi beni (da S. Antonio Abate a S. Benedetto Giuseppe Labre) e ha offerto la vita al servizio del prossimo (da S.Pietro Claver e P.Massimiliano Kolbe). Così dentro la Chiesa sono sorte anime generose che, anche andando controcorrente, hanno soccorso gli schiavi, chi si trovava in difficoltà finanziaria o i più poveri, da S. Vincenzo de Paoli a Madre Teresa di Calcutta. E anche, quando nel Concilio Vaticano II (1962-65), soprattutto per iniziativa di vescovi dell'America Latina (dal brasiliano dom Helder Camara al cileno Manuel Lazzain) è fiorito il movimento della "Chiesa dei poveri", questo veniva per lo più interpretato come un dovere della Chiesa, come impegno del Concilio: far sì che il mondo si organizzi in modo da dare alle popolazioni più povere (nel mondo e all'interno delle singole nazioni) la possibilità di una vita più decorosa, più operosa, più serena.

Vi furono, nel primo periodo del Concilio (ottobre-dicembre 1962) interventi profetici, come quello del card. Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, e di mons. Alfred Ancel, ausilare di Lione. Il primo, in un intervento in aula (6 dicembre), con l'aiuto di don Giuseppe Dossetti, chiamato a Roma dal cardinale che, impegnato per il documento sulla liturgia era stato coinvolto nel movimento della Chiesa dei poveri (a causa dei giovani che ospitava a sue spese in arcivescovado) Dossetti lo aiutò con il discorso (poi largamente citato nel cap. 8 della Costituzione sulla Chiesa, la Lumen Gentium), in cui asseriva che "il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre, ma soprattutto oggi, il mistero di Cristo nei poveri, poiché la Chiesa è si la Chiesa di tutti, ma soprattutto la Chiesa dei poveri". Per questo chiedeva che l'evangelizzazione dei poveri non fosse un tema aggiunto, ma illuminasse i vari temi del Concilio. L'ausiliare di Lione leggeva nella "Chiesa dei poveri" un segno dei tempi, nel senso che bisognava rivolgersi ai poveri non evangelizzati da una Chiesa vista come ricca e potente, alleata dei ricchi e dei potenti. È anche vero che papa Paolo VI, in tempi di "guerra fredda" tra l'Occidente liberale e il mondo comunista che si presentava come tutore della parte più povera della società, temeva che l'impegno per la Chiesa dei poveri rifluisse in politica e riservava a sé le dichiarazioni più importanti (come fece con l'Enciclica Populorum progressio del 1967. Il tema allora fu assunto dai vescovi stessi (su iniziativa di quelli del Belgio, nel cui collegio romano si riuniva il Movimento), che il 16 novembre 1965, alle Catacombe di Domitilla, firmarono un impegno personale a vivere con semplicità, ad essere più vicini ai lavoratori manuali e ai poveri e servirsi di laici fidati per le attività finanziarie. Il cosiddetto "Patto delle Catacombe" (dalla quarantina di presenti fu partecipato a vescovi amici, cosicché poté essere presentato al Papa con oltre cinquecento firme che sarebbero state di più se non fossimo stati nella strozzatura finale del Concilio).

Dopo il Concilio, che già nella proposta di papa Giovanni doveva essere più "pastorale" che "dogmatico", partendo quindi dalle persone, dai loro problemi e dalla loro mentalità per presentare i dogmi, le verità di sempre (non sono queste che cambiano – diceva lo stesso papa Giovanni – ma noi che le capiamo meglio) è continuato l'atteggiamento di una Chiesa e di cristiani attenti a scoprire le povertà del nostro tempo per alleviarle ed eliminarle. E dire che già Gesù Cristo s'era riconosciuto (all'Ultimo Giudizio) nei poveri da soccorrere!

Nel 1968 i vescovi dell'America Latina, riuniti a Medellin per la loro Assemblea continentale, proposero per l'attività della Chiesa l'opzione preferenziale dei poveri, e vi fu chi pagò con la vita l'attuazione di tale pastorale, come mons. Oscar Romero, arcivescovo della capitale di San Salvador ucciso dal governo dei ricchi (e in Italia, d. Pino Puglisi dalla mafia siciliana e d. Giuseppe Diana dalla camorra campana).

Ma è stato papa Francesco con la sua parola e il suo esempio, già anticipati nella fisionomia della sua pastorale argentina (con preferenza nelle periferie – le villas – delle metropoli), a vedere nel povero, prima che un essere da aiutare, un prototipo dell'umanità. Nei ricchi, nei potenti, negli intellettuali vediamo prima le loro qualità, le loro prerogative, che li rendono emergenti nella vita sociale (provocando ambizioni e aggregazioni), mentre nel povero vediamo l'essere umano nella sua sostanzialità: prima di insegnare e di soccorrere dobbiamo imparare cos'è veramente l'essere umano, ogni singolo essere umano di fronte a Dio e ad ogni altra persona. E capiamo perché la radice delle beatitudini sia l'essere poveri nello spirito, avere cioè lo spirito povero di fronte a Dio, senza cui non esisteremmo e non vivremmo, e di fronte agli altri che ci han fatto nascere, crescere, diventare quelli che siamo. Se riceviamo da Dio e dagli altri, a Dio daremo il nostro grazie ("È veramente degno e giusto, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo…") e agli altri il nostro contraccambio, il nostro servizio, nella vita individuale e sociale, e anche nella vita ecclesiale (disposti al Sinodo nelle parrocchie e nelle diocesi) affinché possiamo essere davvero "la Chiesa del grembiule".

 

 


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