Si chiudono vent'anni di guerra e una presenza militare ingombrante in Afghanistan e si aprono necessari bilanci: tra verità e frottole, tra documenti e morti, quale stabilità e quali benefici per la popolazione locale?
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha deciso: via tutte le truppe americane dall'Afghanistan entro l'11 settembre 2021, in coincidenza con il ventesimo anniversario dall'attacco alle Torri gemelle a cui Washington decise di rispondere con il rovesciamento dell'Emirato islamico d'Afghanistan, il governo dei Talebani accusato di ospitare Osama Bin Laden, e con l'inizio della "guerra al terrore".
L'annuncio di Biden è arrivato il 13 aprile 2021, nel corso di una conferenza stampa in cui ha spiegato le ragioni di una decisione storica: "sono il quarto presidente a decidere sulla presenza delle truppe americane in Afghanistan. Due repubblicani. Due democratici. Non passerò la responsabilità a un quinto". Dopo venti anni di guerra, l'amministrazione riconosce dunque che non è più negli interessi strategici statunitensi condurre una guerra sanguinosa in Afghanistan. I pericoli sono altri. E i Talebani, venti anni fa considerati una "minaccia esistenziale" alla sicurezza americana, oggi sono interlocutori diplomatici.
Le residue truppe statunitensi – 2.500 ufficialmente, 3.500 secondo un'inchiesta del New York Times – verranno ritirate, così come i circa 7.000 soldati della missione Nato, come dichiarato a Bruxelles dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e dal segretario di Stato Usa, Antony Blinken. Le loro dichiarazioni sul ritiro sono le ultime di una lunga serie. Contrassegnata da retorica, falsità e da un vizio di fondo.
Lo dimostra la lettura dei cosiddetti "Afghanistan Papers". Più di duemila pagine – ottenute dal Washington Post tramite il Freedom of Information Act e dopo tre anni di battaglie legali e due ricorsi alla Corte federale – con la trascrizione di appunti e interviste con 428 persone direttamente coinvolte nella guerra, tra diplomatici di alto livello e generali. Duemila pagine, venti anni di frottole: "facciamo progressi", "netto miglioramento", "questo è l'anno chiave", erano le dichiarazioni ufficiali. Si trattava di vere e proprie manipolazioni della realtà, che nascondevano all'opinione pubblica la verità: "stiamo perdendo la guerra", "non sappiamo contro chi combattiamo né cosa stiamo facendo", "abbiamo favorito corruzione sistemica".
Verità scomode
Quei documenti sono importanti, ma omettono due cose essenziali. Il fatto che quelle verità non si siano mai trasformate davvero in aperto dissenso, né negli Stati Uniti né in Europa, va ricondotto a una delle più prosaiche regole della realpolitik.
A morire erano e sono gli afghani e le afghane, non noi, non i "nostri soldati". Quando i morti non sono "nostri", la guerra non ci riguarda. È il primo non detto degli Afghanistan Papers. Il secondo è che la matrice di tante morti inutili non riguarda il modo in cui è stata condotta la guerra, come sembra suggerire il Washington Post – con strategie fallaci, calibrate su obiettivi sempre diversi e a volte confliggenti, dalla sconfitta di al-Qaeda al tentativo di esportare diritti e democrazia con le armi – ma la guerra stessa, e più in generale la global war on terror.
I Talebani sono un nemico inventato, creato sulla base dell'errata convinzione che tra loro e al-Qaeda ci fosse stata un'alleanza di ferro, se non una vera e propria fusione. Non era così. Ma la guerra serviva come rappresaglia all'11 settembre. E dava corpo al più importante paradigma della politica estera Usa dopo la guerra fredda: la guerra al terrore del "con noi o contro di noi", dell'avversario trasformato in nemico, del nemico privato di qualsiasi diritto, ridotto a enemy combatant, a tuta arancione calpestata a Guantanamo, a nuda vita torturata nei centri segreti della Cia. Per questo è importante capire se il ritiro dall'Afghanistan corrisponderà all'archiviazione del paradigma della guerra globale al terrore, alla rinuncia all'idea che la forza militare serva a diffondere democrazia e a edificare le nazioni. Oppure se sia solo l'occasione per usare gli stessi strumenti altrove, su altri fronti.
L'Italia
In Italia, paese che – governo dopo governo, legislatura dopo legislatura, proroga dopo proroga, voto dopo voto – ha ciecamente ubbidito alle decisioni di Washington, la notizia del ritiro è stata accolta con generale indifferenza, figlia di un conformismo culturale prima ancora che politico. A pochi mesi dal ritiro dei residui 800 soldati italiani, invece di tracciare un bilancio, di interrogarsi sul senso e sui risultati di una missione estremamente costosa che ha finito per riabilitare e riportare al potere – anche se condiviso – quei Talebani un tempo descritti come selvaggi barbuti, il Parlamento e la classe politica italiana non solo derubricano la guerra ad aneddoto della storia, ma decidono "con votazione coesa" di aprirne nuovi fronti militari, nel Sahel, nel Golfo di Guinea, in Libia.
Ma i bilanci sono necessari. E drammatici, tragici. Oltre ai morti – 50,000 circa quelli civili secondo i dati della George Brown University –, ci sono le tante promesse non mantenute, disattese, archiviate. Al posto della stabilità promessa, il conflitto si è intensificato; la ripresa economica si è dimostrata drogata, gonfiata dall'economia di guerra e dalla dipendenza del bilancio statale dai donatori stranieri; gli aiuti della comunità internazionale – superiori alle capacità di assorbimento del tessuto istituzionale – hanno finito per alimentare la corruzione, ampliando il deficit di fiducia tra cittadini e governo. I Talebani hanno guadagnato terreno, sfruttando la sempre più ridotta legittimità del governo. E i civili continuano a morire: sono 3.050 i morti, 5.785 i feriti registrati nel corso del 2020, secondo i dati di Unama, la missione dell'Onu a Kabul.
In un contesto simile, in un paese in cui secondo le agenzie dell'Onu circa 13 milioni di persone su 35 milioni totali non hanno accesso a cibo sufficiente, in cui la percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà è cresciuta fino al 70%, appare particolarmente ipocrita la posizione dell'Unione europea, pronta a invocare il rispetto dei diritti umani ma altrettanto celere nell'imporre al fragile governo di Kabul accordi-capestro. Come il Joint-Way Forward, l'accordo tra l'Unione europea e il governo di Kaul firmato a Bruxelles nell'ottobre 2016 che prevedeva il rimpatrio – anche forzato – di tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo venisse rigettata dai paesi membri. Scaduto, il 26 aprile è stato sostituito da un Joint Declaration on Migration Cooperation, in linea con il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo dell'Unione europea. Al centro, i rimpatri, drammatici per chi li subisce. E simbolo della postura che la comunità internazionale rischia di assumere con il ritiro delle truppe: il disimpegno diplomatico e finanziario dall'Afghanistan, l'abdicazione rispetto alle nostre responsabilità. Al contrario, il ritiro delle truppe dovrebbe indurci a chiederci: in che modo l'Italia e l'Unione europea intendono continuare a sostenere uno dei paesi economicamente e istituzionalmente più fragili al mondo? O varrà forse il vecchio adagio per cui, ritirate le truppe, viene chiuso il dossier, e che le afghane e gli afghani si arrangino da soli e da sole?