La parola può essere usata per ferire, per offendere o per discriminare. Come si può limitare o evitare l'incitamento all'odio? Intervista a Federico Faloppa.
Nel numero di ottobre di Mosaico di pace abbiamo aperto una riflessione su un fenomeno molto diffuso: l'hate speech o discorso d'odio. Ce ne ha parlato Federico Faloppa, professore di Italian Studies e Linguistics nel Department of Languages and Cultures dell'Università di Reading (UK) e coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d'odio (www.retecontrolodio.org). Proseguiamo il nostro approfondimento.
Prof. Faloppa, c'è chi ritiene che l'hate speech rientri nella libertà di espressione. È così?
La questione è complessa. Iniziamo col dire che incitamento all'odio, calunnia, diffamazione, e minaccia – per citare alcune delle forme in cui si esplicita il discorso d'odio – non rientrano affatto nella libertà d'espressione ma – salvo l'ingiuria, depenalizzata – appartengono al codice penale, almeno in Italia. D'altronde, secondo il nostro sistema giuridico e secondo la Convenzione Europa sui Diritti Umani (CEDU), il diritto alla libertà di espressione (garantito dall'art. 21 della Costituzione) non è un diritto assoluto, ma deve essere in equilibrio con il ripudio delle discriminazioni su basi etniche, razziali, religiose, nazionali, linguistiche, ecc. (art. 3 Cost.) e con l'abuso di diritto (art. 17 della CEDU). È un equilibrio delicato ma fondamentale che individua non solo diritti ma anche tutele, responsabilità, limiti. E il limite deve essere chiaro: quando la parola diventa incitamento all'odio e strumento di discriminazione non deve, o non dovrebbe, essere protetta: al contrario dovrebbe essere criticata – nella comunicazione pubblica e politica, ad esempio – contrastata, e in alcuni casi – quelli previsti dai codici – anche sanzionata. È bene che questa cosa sia chiara sia a chi produce e diffonde contenuti d'odio, sia a chi li subisce, e che può avvalersi di strumenti, anche giuridici, per tutelarsi.
Il fenomeno è legato solo ai social network?
Il discorso d'odio non è un fenomeno recente, né è nato con i social media, come spesso si tende a pensare. Quando ho cominciato a occuparmi di "razzismo linguistico", e di come possiamo discriminare attraverso il linguaggio, studiavo ad esempio la storia di modi di dire ed espressioni ingiuriose verso alcune minoranze (ebrei, persone dal diverso colore della pelle, popolazioni nomadi, ecc.) diffusi da secoli, non solo in Italia. Tuttavia è indubbio che proprio sui social media si assista a una rapida intensificazione del fenomeno, per quantità e qualità. Questo è dovuto senz'altro – come spiega Giovanni Ziccardi nel suo Odio online (2017) ad alcune caratteristiche dei social, tra cui la permanenza del messaggio, la sua diffusione potenzialmente incontrollabile, il suo anonimato, la sua "virtualità" – che ci permette di essere incuranti degli effetti su chi lo riceve – la spirale del silenzio che ci inibisce dall'esprimerci se ci consideriamo isolati o minoranza. Ma è dovuto anche alla scomparsa di modelli virtuosi (si tende a scrivere e parlar male quasi in tutti i contesti, perché tutti fanno così), alla mancanza di responsabilità politica e civile di chi invece cavalca l'hate speech per gestire il consenso e manipolare l'opinione pubblica, al venir meno del ruolo di watchdog di alcuni corpi intermedi – tra cui i media mainstream – e alla crescente disinformazione, che riduce i fatti a una miriade di punti di vista (e quindi al tutti contro tutti). Ed è dovuto, infine, alla scarsa consapevolezza, da parte di molti, del mezzo linguistico e digitale. Vale sempre l'efficace metafora di Vera Gheno, dei social media come il balcone di casa. "A casa mia faccio ciò che voglio", pensiamo: ma una cosa è denudarsi in cucina o bestemmiare in bagno, da soli. Un'altra è stare nudi, bestemmiando, sul balcone, in uno spazio che a me sembra casa mia, ma che mi espone anche alla vista di chiunque ci passi davanti, e di cui non posso prevedere o controllare le reazioni, come, ad esempio, una bella denuncia per atti contrari alla pubblica decenza. Fuor di metafora: sapere ciò che stiamo facendo, e come e dove lo stiamo facendo, dovrebbe essere la base: le molte persone hater che, dopo una denuncia, si giustificano dicendo che non sapevano, non volevano, non avevano idea che quel messaggio sarebbe circolato così ampiamente, avrebbe danneggiato così tanto quella persona o quel gruppo di persone, mi fa pensare che, parlando di hate speech, consapevolezza e responsabilità individuali siano concetti tutt'altro che acquisiti, e che educazione linguistica, digitale e diritti umani non possano essere disgiunte.
Quanto c'è di inconsapevole in certe espressioni di odio che usiamo quotidianamente e che responsabilità hanno i mass media?
Sul piano linguistico e formale, il discorso d'odio è molto più variegato di quanto si pensi. Ne fanno parte certamente le cosiddette "hate words", le parole per ferire (ad es. gli insulti razzisti), certi termini che hanno connotazioni negative e sono spregiativi. Ma ne fanno parte anche forme più implicite ("è gay, ma innocuo"), registri ironici e sarcastici, cattive argomentazioni che vogliono farci condividere una conclusione ("prima gli italiani", e quindi i non-italiani sono una minaccia, non sono portatori degli stessi diritti) sulla base di false premesse e modalità pragmatiche che tendono a zittire l'altro, a negargli uno spazio discorsivo e quindi pubblico. Di quante di queste modalità e forme siamo davvero consapevoli? Certo, dovrebbero esserne consapevoli almeno i professionisti e le professioniste dell'informazione: riproducendo – senza discuterli – contenuti d'odio, frame sessisti e degradanti delle donne, generalizzazioni e stereotipi (ad esempio quelli che associano criminalità e migranti) non solo legittimano chi diffonde discorsi d'odio, ma fanno un pessimo lavoro di informazione, infantilizzando l'opinione pubblica e producendo allarme sociale ingiustificato. Consapevolezza (linguistica) e responsabilità (civica) dovrebbero essere diritti e doveri di tutte e tutti, in una democrazia. A maggior ragione se si hanno ruoli istituzionali, educativi, nel mondo dell'informazione: lì dovrebbero essere prerequisiti.
È giusto o sbagliato considerare le parole di odio come anticamera alla violenza fisica?
Non è facile dimostrare una correlazione diretta, o ancor meno di causa-effetto, tra hate speech e violenza fisica. Da anni ci sta provando l'associazione Vox Diritti di Milano, con le "mappe dell'intolleranza" proprio per geolocalizzare i fenomeni visualizzandone i possibili legami. Cosa utilissima se si vogliono rilevare picchi o sciami d'odio dopo che i fatti sono avvenuti. Insultare, calunniare, diffamare, minacciare un'altra persona, però, non anticipa necessariamente una violenza fisica. Tuttavia, due cose si possono dire con un po' di certezza. Che le aggressioni fisiche – motivate da razzismo, omo-lesbo-transfobia, misoginia, islamofobia, antiziganismo – spesso sono accompagnate da hate speech. E che, comunque, gli effetti della violenza verbale, subita, possono essere di breve, medio, o lungo periodo. Non lasciano lividi o fratture, ma ferite profonde sul piano psicologico, dalla perdita di autostima allo stress post-traumatico, da un senso di frustrazione a forme depressive. Chi dice che "si tratta solo di parole", evidentemente, non ha mai provato davvero, sulla propria pelle o sulla propria psiche, l'hate speech.
Come si può contrastare l'hate speech?
Per contrastare un fenomeno bisogna conoscerlo bene. Quindi, la prima cosa da fare è avere dati, far emergere i casi – spesso non denunciati – avere consapevolezza di cosa sia l'hate speech, di come si manifesti e con quali modalità, della sua percezione da parte delle "vittime", della sua pericolosità. Una volta conosciuto, il fenomeno può essere affrontato e contrastato in diversi modi. Se l'hate speech è reato – e spesso lo è, pensiamo alla minaccia o alla diffamazione – è materia di giurisprudenza, penale o civile. Se si manifesta online, attraverso le piattaforme social – come crimine o come harmful speech – bisognerebbe segnalarlo al social media provider e assicurarsi che la segnalazione venga presa in carico, sperando che il contenuto d'odio, soprattutto se rientra in una categoria giuridica, venga rimosso. Se l'hate speech si basa su stereotipi e pregiudizi (è la tesi espressa dalla cosiddetta «piramide dell'odio», la cui base sarebbe costituita appunto da idee stereotipiche o preconcette), occorre adoperarsi alla loro decostruzione, tentando di intervenire alla radice del problema. E in questo sono fondamentali il lavoro nelle scuole, una maggiore attenzione da parte dei mass media, una profonda operazione di de-colonizzazione e di "de-machizzazione" del nostro immaginario. Negare il fenomeno è la prima cosa che non dobbiamo fare.
Chiudo però con un consiglio molto spicciolo: di fronte alla persona hater che mi insulta, evito sempre di rispondere per le rime. Anche l'ironia, a volte, risulta un'arma spuntata. Preferisco, semplicemente, ribattere con una domanda: "In che senso sarei buonista?", "In che senso intellettuale?". Spesso ingiuriandoci la persona hater riesce a metterci nell'angolo, lasciando a noi l'onere della prova. Rispondendo con una domanda, possiamo provare a rispedire questo onere della prova al mittente: della serie: non sono io che devo dimostrare nulla, sei tu che devi giustificare le tue espressioni d'odio.