Intervista a Umberto Santino: quali relazioni tra l'assetto economico neoliberista della globalizzazione e gli interessi delle varie organizzazioni mafiose?
Umberto Santino ha fondato, nel 1977, insieme ad Anna Puglisi, il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, che tuttora dirige. Il suo saggio Breve storia della mafia e dell'antimafia rappresenta un importante strumento di riflessione e di analisi che mette al centro lo studio dei fenomeni mafiosi nella loro complessità.
Il primo elemento fondamentale per condurre la lotta alle mafie consiste nella scientificità dello studio dei fenomeni mafiosi, che permette di decostruire gli stereotipi connessi alle interpretazioni delle mafie e di assumere un atteggiamento critico che vede le mafie sia fuori e contro lo Stato che dentro e con lo Stato. Interessanti, nel saggio, le analisi che definiscono la mafia come soggetto politico e la società come mafiogena. Inoltre, Santino presenta una correlazione ermeneutica tra l'assetto economico neoliberista della globalizzazione e gli interessi economici delle varie organizzazioni mafiose.
Umberto Santino, nel suo lavoro emerge l'importanza di conoscere "scientificamente" il nemico, ossia le associazioni mafiose, adottando un paradigma di studio e superando stereotipi ben consolidati nel tempo. Ritiene che attualmente le istituzioni educative, i centri di ricerca e le associazioni, siano all'altezza di tale sfida?
Quando ho cominciato a occuparmi di mafia, l'idea più diffusa era che si trattasse di una subcultura, cioè di un modello comportamentale di una fascia limitata della popolazione, di una devianza circoscritta, e la tesi "culturalista" è stata egemone per molto tempo. Dopo la guerra di mafia dei primi anni Ottanta e le rivelazioni dei cosiddetti "pentiti", soprattutto di Tommaso Buscetta, si è imposta la tesi che potremmo definire "organizzativista": Cosa nostra come associazione criminale articolata gerarchicamente, con le famiglie, i mandamenti, le commissioni provinciali e al vertice un capo dei capi.
In molti libri che parlano di mafia spesso non c'è una definizione, come se si desse per scontata o come se non occorra spiegarla.
La mia analisi in primo luogo si fonda su un metodo di lavoro: vaglio delle idee correnti, formulazione di un'ipotesi definitoria. verifica attraverso la ricerca. L'analisi delle idee correnti classificabili come stereotipi, di grande diffusione ma prive di base scientifica (la mafia come emergenza, cioè esiste quando spara, mentre è un fenomeno continuativo; come antistato, poiché uccide rappresentanti delle istituzioni, ma il rapporto con le istituzioni è complesso, va dalla convivenza all'interazione e al conflitto), e paradigmi elaborati in base a un criterio e con una certa base di dati, che colgono solo alcuni aspetti del fenomeno mafioso (il modello comportamentale o l'organizzazione) mi ha indotto a elaborare il "paradigma della complessità", in cui l'associazionismo criminale si lega a un modello di accumulazione, a un sistema di potere e a un codice culturale e gode di un certo consenso sociale.
Oggi sono sempre diffusi gli stereotipi, che non sono solo quelli già indicati, ce ne sono altri, più o meno esplicitati: le mafie sono un fenomeno meridionale, oppure tutto è mafia: la piovra universale. Prevalente, tra i paradigmi quello giuridico-organizzativo, dopo la legge antimafia del 1982 che replica in qualche modo lo stereotipo dell'emergenza: la legge venne approvata dieci giorni dopo l'assassinio di Dalla Chiesa.
A livello accademico negli ultimi anni si è molto diffusa l'idea della mafia come "industria della protezione privata", cioè agisce come un'agenzia di assicurazione in una società esposta al rischio, mentre è la mafia a indurre il rischio, minacciando ritorsioni se non si accoglie il pizzo.
Anche per la storia ci sono idee comuni inadeguate e discutibili: si parla di mafia vecchia e mafia nuova, mafia che prima aveva un codice d'onore e non uccideva donne e bambini, e negli ultimi anni avrebbe cambiato pelle con il traffico di droghe e sarebbe diventata imprenditrice e mercatista, avrebbe abbandonato la violenza e prediligerebbe la corruzione. A mio avviso, come per tutti i fenomeni di durata, persistenti nel tempo, c'è un intreccio tra continuità e innovazione. Un esempio: l'estorsione è praticata da molto tempo e convive con pratiche moderne come i traffici internazionali; la signoria territoriale è certamente un aspetto arcaico ma è perfettamente funzionale ad attività internazionali. Il dominio territoriale di Gaetano Badalamenti serviva per l'installazione di raffinerie di eroina nelle vicinanze dell'aeroporto di Palermo e per l'esportazione della droga verso gli Stati Uniti.
Si è fatta strada comunque l'idea della complessità e della penetrazione in aree diverse da quelle originarie e il mio concetto di "borghesia mafiosa", che prima veniva considerato un residuo vetero-marxista, ha un'ampia circolazione e rischia di diventare un luogo comune, all'insegna di una criminalizzazione generalizzata. Nelle scuole le iniziative di educazione alla legalità sono una novità (prima a scuola non si parlava mai di mafia), anche se indulgono alla ritualità e non si legano con l'attività didattica nel suo complesso: spesso hanno un effetto positivo, inducendo contraddizioni tra gli studenti e le loro famiglie. Recentemente un capomafia voleva impedire a una bambina di partecipare con la sua classe alle manifestazioni per Falcone e Borsellino, ma ci sono altri mafiosi che cavalcano l'antimafia: Provenzano dava il suo assenso all'organizzazione di iniziative "antimafia".
Le mafie storicamente si sono inserite nei tessuti economici delle varie realtà nelle quali operano; lei parla di villaggio mafiogeno e di un contesto mondiale criminogeno ponendolo in relazione al fenomeno della globalizzazione. Crede che l'attuale modello di sviluppo economico e politico sia "fruttuoso" per le mafie? E un eventuale altro modello di sviluppo su quali caratteristiche si deve basare?
La globalizzazione è mafiogena per due aspetti fondamentali: l'aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, con l'impoverimento di gran parte della popolazione mondiale, e la finanziarizzazione dell'economia con la fusione tra capitali legali e illegali. Queste sono le ragioni per cui le mafie proliferano nelle grandi periferie e nei centri del capitalismo finanziario.
Attualmente ospiti del pianeta siamo 7,8 miliardi, nel 2030 si prevede che saremo 8,5 miliardi, e l'1% della popolazione è più ricco di 6,9 miliardi di persone, il 13% vive con 1,90 dollari al giorno. Come si spiega che la stragrande maggioranza della popolazione non riesca a mutare una situazione dominata da una minoranza così sparuta? La maggioranza è frammentata e divisa e, dopo la crisi delle prospettive di cambiamento, rivoluzionarie o riformiste, non ha né idee, né progetti, né mezzi per costruire una nuova società. Per l'era in cui viviamo si parla di "antropocene", nel senso che il pianeta è sotto il dominio del presunto homo sapiens, ma per evitare responsabilità indistinte si parla di "capitalocene": è il modello capitalistico attuale che produce il saccheggio della natura, l'inquinamento, i mutamenti climatici, i disastri ambientali, la desertificazione di grandi aree; aggrava le vecchie e genera nuove povertà e, di fronte ai flussi migratori gestiti da gruppi mafiosi, e ai morti in mare, invece di agire sulle cause si ricorre ai respingimenti e all'elargizione di fondi alla Turchia e alla Libia che violano i diritti umani più elementari.
La pandemia ha dimostrato che la sanità pubblica è indispensabile, ma i progetti per l'utilizzo dei fondi europei rispondono più a logiche di rilancio del privato che di potenziamento del pubblico, ridefinendolo attraverso la partecipazione democratica e con una radicale riforma dell'apparato amministrativo. Il problema è la "ripresa", la crescita del PIL, i confindustriali fremono per ripristinare i licenziamenti e, per evitare che scoppi la "bomba sociale", si cerca di temperare le politiche liberiste con provvedimenti che potremmo definire di "capitalismo compassionevole".
Le mafie hanno facile gioco a inserirsi a vari livelli: agendo da welfare quotidiano per gli strati più poveri, da agenzia di credito con prestiti usurai per le aziende in crisi, con il proposito si annetterle al loro dominio, mirando all'accaparramento di fondi pubblici attraverso appalti e forniture, facilitato dall'attenuazione o eliminazione dei controlli.
Più che un altro modello di sviluppo dobbiamo elaborare un modello alternativo di civiltà, in cui convivere invece di competere: la ricerca del profitto ceda il passo a un'economia fondata sul soddisfacimento dei bisogni, si rispetti la natura, l'etica non sia fatta solo di divieti (il decalogo dei non, la non-violenza) ma si declini in positivo. Si rilanciano razzismi, nazionalismi, sovranismi, mentre occorrerebbero una coscienza e un'etica planetarie. Diceva padre Balducci: "la complessità ci ha sopraffatti, essa rende possibile la transizione a una umanità planetaria mentre la coscienza è ancora tribale". Siamo i giganti della tecnica e i nani dell'etica, ma quello che succede ogni giorno, e minaccia di replicarsi all'infinito, dimostra che il gigante più che avere i piedi d'argilla è un pupazzo di plastica.