Le lotte degli operai della GKN per i loro diritti al lavoro, contro la delocalizzazione e la svendita delle politiche industriali ed economiche.
La lotta dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio è davvero esemplare. E per diverse ragioni.
La prima è esemplificativa del contesto produttivo industriale di questa fase, in cui i sovrapprofitti di un fondo di investimento inglese, Melrose, vengono determinati da centinaia di licenziamenti: acquisisci un'azienda superefficiente e con grande mercato e la chiudi per delocalizzarla. L'assenza di politiche industriali da parte dello Stato e di leggi che tutelino l'interesse sociale a fronte di operazioni puramente speculative costituisce un incoraggiamento ad atti di pirateria finanziaria. Significativo che la sospensione della procedura di licenziamento, decisa dal tribunale di Firenze su istanza della Fiom per attività antisindacale, ex articolo 28 dello Statuto, abbia fatto perdere il 5% di GKN in borsa…
La seconda ragione dipende direttamente dalla forte competenza sindacale e tecnica del Collettivo di fabbrica, costruitosi in anni di gestione di vertenze interne e di controllo dell'organizzazione del lavoro e del processo produttivo, avvalendosi anche del contributo dell'Università di Pisa. Un esempio ormai rarissimo rispetto ai tempi dei Consigli di fabbrica degli anni Settanta del secolo scorso, quando si erano determinate anche sperimentazioni di controllo operaio sulla produzione e di orientamento sul come, cosa e per chi produrre… e persino anche dove (mi riferisco alle lotte operaie del Nord per garantire posti di lavoro al Sud).
Questo Collettivo esprime la RSU nel suo complesso, ma ha ottenuto anche il riconoscimento di delegati di reparto aggiuntivi, riproducendo un'organizzazione operaia non a caso ispirata proprio ai Consigli degli anni Settanta. E con un'attenzione alla formazione di propri quadri tecnici e politici.
Licenziamenti e lotte
A fronte della cancellazione di 422 posti di lavoro, a cui se ne aggiungono 80 della mensa e servizi, che gettano sul lastrico altrettante famiglie e impoveriscono un territorio già martoriato da altre chiusure di realtà produttive, la risposta non è stata quella della ricerca di "sistemazione" delle persone licenziate, attraverso ricollocazioni che tolgono inevitabilmente posto ad altri senza lavoro, ma quella della conservazione di tutti e 500 i posti che quel sito produttivo efficiente può continuare a garantire, con o senza il Fondo Melrose. La determinazione di quei lavoratori sta agitando le stesse acque sindacali, da troppo tempo dedite ad amministrare le chiusure degli stabilimenti, ragionando solo in termini di ammortizzatori sociali: una politica miope, incapace di guardare fuori dagli schemi classici, per cui se se ne va un padrone bisogna cercarne un altro altrimenti tutto è finito.
Gli investimenti fatti dalla azienda hanno portato in fabbrica macchinari automatizzati di altissima tecnologia, approfittando dei finanziamenti – oggi negati dal management – per l'industria 4.0; si parla di decine di robot da oltre un milione e mezzo di euro l'uno, alcuni dei quali ancora nelle scatole di imballaggio, destinate, secondo Lorsignori, ad essere delocalizzate in Polonia. Macchinari che, negli anni, i tecnici hanno perfezionato e adattato all'evolversi della produzione, su iniziativa loro e non del management non interessato (compreso quello della produzione di pannelli fotovoltaici da porre sui tetti per ridurre il consumo elettrico di macchinari particolarmente energivori: progetto rifiutato dalla direzione). Questi robot possono essere adatti anche per produzioni del tutto diverse dai semiassi per automobili e veicoli industriali, che costituiscono l'attuale produzione. Possono anche essere impiegati per produzioni ecologiche nell'interesse del territorio e dei suoi bisogni: una potenzialità eccezionale, che dovrebbe essere tutelata in nome dell'interesse comune dei cittadini e quindi sostenuta da un intervento statale.
E lo Stato?
Qui lo Stato non si vede. E il governo, anche per un semplicissimo decreto, la cui unica bozza seria è stata redatta dai Collettivo GKN insieme a giuristi accorsi in solidarietà ai cancelli dello stabilimento, non ha prodotto quasi nulla al riguardo e, dopo le critiche confindustriali, ha anche ritirato un piccolo spunto del ministro Orlando inibitorio di pratiche di pirateria tradizionalmente attuate dalle multinazionali. Ma qui entra in gioco la potenzialità che, se recepita dalla società attraverso la mobilitazione dal basso, può portare anche governi recalcitranti a emanare provvedimenti che aiutano a mantenere i posti di lavoro e le produzioni.
Se i lavoratori possono fare a meno dei loro padroni, possono progettare e realizzare attività nell'interesse pubblico anche al di fuori del settore automotive. Servono interventi amministrativi e risorse che, invece di essere date per interessi di profitto privato, possono favorire percorsi di autogestione operaia, in accordo con le istituzioni del territorio.
Come scrivono gli ingegneri solidali, quello stabilimento può realizzare ad esempio macchinari che forniscano soluzioni tecnologiche e progettazione per le aziende del territorio, diventando un centro propulsore di un'innovazione 4.0 socialmente sostenibile. Così come la possibile creazione di un centro di formazione integrato col sistema universitario, dove la ricerca pubblica possa sviluppare brevetti in sinergia con la produzione in fabbrica. O anche produzioni dirette di strumentazioni fondamentali per una riconversione in senso ecologico della produzione industriale nel nostro Paese e a livello europeo.
In un luogo dove sono riunite tutte le condizioni essenziali per l'autogestione e la progettazione di un'economia altra, fuori dalle logiche del profitto pirata, condizioni soggettive e oggettive, l'occasione non va sprecata. Qui vi sono le competenze tecniche e politiche e i macchinari più avanzati. È quello che ha fatto gridare a un parroco del territorio, con passato legato a esperienze in Brasile, che quella fabbrica deve andare avanti senza padrone. È proprio in Brasile che dal Movimento Sem Terra è nata la parola d'ordine ocupar, resistir, producir transitata poi in Argentina nel 2001, dove è diventata pratica concreta di recupero di centinaia di imprese abbandonate dai padroni scappati all'estero e che ancora producono dopo vent'anni. In Europa fece discutere a inizio anni Settanta la battaglia della Lip di Besançon nel Sud della Francia, una fabbrica di orologi che produsse per qualche tempo senza padrone, ispirando filoni sindacali autogestionari in particolare nel sindacalismo cattolico di sinistra anche nel nostro Paese.
In Italia abbiamo provato già una piccolissima sperimentazione ormai quasi una decina di anni fa, quando chiuse un'azienda, anche questa del settore automotive, la Maflow di Trezzano sul Naviglio, cancellata da una bancarotta fraudolenta di un fondo pirata… guarda caso. Dopo che una lotta per difenderla andò persa, come quasi sempre accade, pensammo che la storia non era affatto finita. Non riuscimmo a tenere i macchinari, ma solo i capannoni; non avevamo grandi quadri politici e sindacali, ma lavoratori e lavoratrici comuni e in piccola minoranza rispetto ai 330 licenziati; nessuno dei tecnici era rimasto… eppure si occupò cercando un accordo con la proprietà dell'area, una banca, Unicredit, che non arrivò. Ma la creatività delle persone, l'accoglienza di altri licenziati e di persone svantaggiate ne ha fatto un piccolo simbolo e, con l'aiuto di tanti solidali, tra cui la Caritas diocesana di Milano, è riuscita ad ottenere la mediazione in sede prefettizia e risorse per l'acquisto dei capannoni, quasi diecimila metri quadri che ospitano decine di operai e di artigiani, in un progetto innovativo di cooperazione sociale che si chiama RiMaflow Fuorimercato. Se il risultato è stato positivo senza nessuna delle condizioni migliori, alla GKN il sogno può trasformarsi in realtà e con un impatto mille volte più grande su tanti siti produttivi efficienti in Italia.
Noi pensiamo che questo modello di sviluppo sia in crisi irreversibile e che il futuro debba essere ripensato sulla base di criteri ecologisti e mutualistici, recuperando in forma innovativa quel che ispirò a fine Ottocento le Società operaie di mutuo soccorso, quando ancora il welfare non esisteva e una netta distinzione tra sindacato e cooperativismo non era ancora data. Bisogna che proprio gli stessi sindacati ripensino in parte alle loro funzioni. Un modo per resistere non è solo di combattere un padrone – oggi peraltro sempre più evanescente – ma di costruire quell'economia solidale che serve mettendosi in gioco in prima persona. Una via che vale la pena di prendere in considerazione.