Fragili angeli che annunciano la vita: Chiesa e pandemia.

 

Nella vita delle persone, come nella storia delle istituzioni, si danno talvolta situazioni-limite che sono realmente "attimi di verità", passaggi rivelativi di chi siamo, di come pensiamo, degli orizzonti di senso e di cammino che ci guidano, della coincidenza o meno tra ciò che affermiamo pubblicamente e le reali motivazioni che ci animano.

I mesi di febbraio-marzo del 2020 rappresentano un tale "momento di verità" per la Chiesa: improvvisamente le abituali attività pastorali sono state sospese ed è venuta meno la possibilità di riunirsi in assemblea per le celebrazioni liturgiche. Il lock down e le successive due ondate di pandemia, che hanno segnato l'anno pastorale 2020-2021, seppur in forme differenti, sono state un passaggio rivelativo, drammatico e doloroso. Da un lato ha fatto partecipare dell'incertezza e fragilità della condizione umana in un'esperienza che toccava non solo i singoli ma la collettività e il vivere sociale, dall'altro ha messo allo scoperto limiti e problemi profondi che segnano, da decenni, il corpo ecclesiale.

Azzeramento della catechesi e dei riti che abitualmente ritmano la vita delle comunità cristiane, blocco di ogni programma pastorale definito, destrutturazione delle "procedure pastorali" intorno alle quali si regge ancora una forma post-tridentina di parrocchia e di Chiesa hanno costretto clero e laici a interrogarsi sulla forma di chiesa, sulla modalità di presenza nella società dei cristiani, sulla capacità di annunciare il Vangelo. Abbiamo sperimentato quanto strutture ecclesiali che apparivano a prima vista solide, nella loro secolare ripetizione e stabilità, fossero fragili, segnate da un punto di rottura che l'urto violento di un invisibile virus ha decostruito. Un'esperienza di fragilità che nei mesi successivi ha fatto emergere il nucleo "autenticamente solido" al cuore della fede cristiana, che chiedeva di essere riscoperto e riplasmato in una inedita "figura fragile e flessibile" di Chiesa, insieme ai tentativi di mettere tra parentesi la crisi sperimentata per ritornare quanto prima a figure e strutture ecclesiali conosciute, rassicuranti, che confidano più sul rafforzamento del "contenitore ecclesiale" che non sulla solidità del fondamento interno.

Strutture irrigidite

A più di 60 anni dal Concilio Vaticano II e dalla sua rinnovata visione ecclesiologica è apparso chiaro, durante la pandemia, il permanere di una forma gregoriana-tridentina di Chiesa, incentrata sul sacerdote, sulla sacramentalizzazione, sulla devozione popolare: le scelte di tanti parroci, le parole di molti vescovi apparivano ancora più del solito bloccate nelle categorie tridentine, irrigidite nel riproporre (magari in ambiente digitale) forme rituali tradizionali. Una "concezione identitaria" di Chiesa affidata in tutto e solo all'eucaristia; un clero che sentiva di perdere il controllo dell'istituzione ed era incapace di valorizzare realmente l'apporto dei laici; una Chiesa abituata a custodire l'esistente e a curare il bisogno religioso che non era in grado di accettare la sfida di un ripensamento profondo con paradigmi e prospettive altri rispetto a quelli ricevuti dal passato nel confronto con un nuovo, che inaspettatamente e improvvisamente aveva fatto irruzione. Davanti al pericolo di vita, a ciò che sconosciuto stava sgretolando abitudini e sicurezze, molte delle istituzioni e dei riti si sono rivelati "in/consistenti" e molte delle parole pronunciate dal clero inadeguate e insignificanti rispetto alle domande di senso, di vita interiore, di autenticità spirituale che emergevano in tante persone, giovani e adulte. Se abbiamo sperimentato che "la Chiesa cammina insieme all'umanità intera e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte" (GS 40), non abbiamo sentito risuonare – se non dal Papa e da pochi vescovi – una parola di sapienza e profezia sulla dignità della persona umana (GS 41), sulle dinamiche sociali (GS 42), sulla attività umana e scientifica (GS 43), quelle parole evangeliche che la Chiesa è chiamata a dare nel contesto pubblico. In alcuni momenti, nelle parole di rivendicazione di pretesi diritti della Chiesa lesi dallo Stato, si sono smarrite le parole coraggiose del Concilio: "la Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offerti a lei dalla autorità civile. Anzi essa rinuncerà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, se constatasse che il loro uso potrebbe far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze" (GS 76). Più in generale si è faticato a riconoscere i segni di novità ecclesiale che stavano maturando a tanti livelli, nella recezione autentica della visione del Vaticano II: celebrazioni domestiche, riconoscimento vitale del sacerdozio battesimale, ministerialità degli sposi, percorsi formativi biblici e teologici per adulti frequentati da centinaia di persone, riscoperta della liturgia delle ore. Talora esperienze di piccoli gruppi, ma estremamente significative per la forma nuova – più leggera e più vicina ai linguaggi della vita – di Chiesa che incarnavano.

Vasi di terracotta

La pandemia, modificando le forme del vivere sociale, rappresenta una salutare esperienza di confronto con la fragilità anche per la Chiesa: anche per noi i miti sociali della sicurezza, della stabilità dell'istituzione, della continuità indiscussa dei suoi riti e delle sue strutture sono stati infranti. Ma la conversione e la riforma richieste ci fanno paura. Così in questi ultimi mesi abbiamo in fondo cercato di ricrearne almeno alcuni, di proporre forme sostitutive sostenibili in tempo di pandemia, relegando a drammatica parentesi da chiudersi al più presto quanto avvenuto. L'esperienza che stiamo vivendo però con il suo sottrarci "tempio e sacerdote", con il suo decostruire pratiche pastorali già da tempo percepite pesanti e inadeguate, mette a nudo il nucleo portante della fede cristiana e della vita ecclesiale. Ci riporta al Vangelo come principio che genera e rigenera la Chiesa, ci fa riscoprire l'eucarestia come celebrazione di una assemblea di credenti, ci richiama agli orizzonti ampi della missione ecclesiale a servizio del regno di Dio nella storia degli uomini. In fragili vasi di terracotta portiamo il tesoro prezioso della parola evangelica (2Cor 4,1-18), l'annuncio di un Dio amante della Vita. Dobbiamo trovare "linguaggi non religiosi" (D. Bonhoeffer) per annunciare la risurrezione di Gesù, il messia crocifisso, e per riconoscere – noi cristiani per primi – il paradosso di essere salvati nella debolezza, in colui che è stato rifiutato, abbandonato, giudicato maledetto da Dio, un "senza potere" condannato dai poteri di questo mondo. Gesù di Nazareth ci chiede di abbandonare il "Dio tappabuchi" e annuncia un Dio fuori dalle logiche del sacro, che ha scelto il mondo degli uomini definitivamente, come "suo luogo proprio" (J. B. Metz).

Da questa prospettiva dobbiamo ripensare anche la nostra stessa identità e forma ecclesiale, nella coscienza dei limiti da superare (la forma tridentina in primis) e di una figura nuova – più fragile e adeguata al tempo presente – da riconoscere e assumere. Come Chiesa, da secoli, "passiamo la vita a voler evitare le fragilità e a cercare il potere, cerchiamo anche di immaginarci forti in modo definitivo" (M. Benasayag), senza riconoscere che è proprio della natura ecclesiale essere "vaso di terracotta", semplice, opaco, non pretenzioso e senza grande valore, fatto per l'uso quotidiano, a permanente rischio di rottura (Is 30,13-14; Ger 19,11).

Nelle nostre vite c'è una manifestazione autentica della potenza paradossale di Dio, ma in una condizione umana limitata, non segnata dalla forza o dallo splendore, dal potere o dalla gloria: portiamo in noi stessi, nella forma pubblica che assumiamo, l'attestazione che è Dio, non noi, che dà e ridà vita a tutti. La Chiesa esiste non per cercare influenza e gloria in questo mondo ma per annunciare il Regno con abnegazione nel dono di sé, con povertà nei mezzi necessari per la missione, con forme adeguate all'oggi che chiede nuova essenzialità, capacità di trasformazione, inclusività, responsabilità profetica, creatività di forme celebrative, flessibilità di strutture, porosità di confini, decentramento.

Si tratta di accettare la via della fragilità aperta dalla pandemia: accettare di morire a forme vecchie e nello stesso tempo accogliere la sfida di camminare insieme verso un inedito sconosciuto; non pretendere più di essere gli unici portatori di verità assolute e trattati apologetici che dissolvono ogni dubbio e rispondono a ogni interrogativo esistenziale. Dobbiamo accettare la logica dell'"inutilità" della fede e superare ogni postura di controllo sulle coscienze: coltivare le domande aperte, quelle che ci raggiungono da fuori del recinto ecclesiale, accettando di non avere risposte preconfezionate, anche noi segnati dal dubbio e dalla fatica del credere. Riconoscere, infine, la forza testimoniale di quei tanti fragili gesti di carità, di risposta al bisogno del malato, del povero, del solo, dello scartato che durante la pandemia sono stati compiuti da tanti, credenti e non. Una Chiesa "leggera" che non teme di perdere influenza politica né di spogliarsi di strutture o di pretese sicurezze dottrinali, perché sa che il tesoro prezioso che porta – il Vangelo di Gesù – è la struttura portante del suo essere.

Fragili angeli, annunciatori della risurrezione.