Fragilità e riscatto della politica: chi e cosa resta?
Esiste "la politica"?
Non vorrei parlare della fragilità specifica della "politica", come presupponendo che quest'ultima esista quale soggetto a se stante. Bisogna sempre ricondurla a soggetti concreti e a responsabilità precise, altrimenti si resta in una rappresentazione astratta per cui la politica stessa non sembra suscettibile di svolte qualitative perché anzitutto non se ne vedono i protagonisti possibili.
L'impatto della pandemia del covid-19 ha portato ancor più allo scoperto il fatto che la nostra è una civiltà mal costruita proprio perché in radice è informata da questa logica alienante, culminante oggi nello strapotere dei mercati e della tecnocrazia. Questa è la grande fragilità della politica, se intendiamo il termine non in generale come vulnerabilità naturale dei viventi, ma come stato di inadeguatezza e di incongruenza rispetto a quanto la realtà richiede. L'esito dell'efficacia maligna del potere è la disgregazione del sistema delle relazioni vitali, con l'oppressione dell'umanità e della natura. Il potere non governa, mortifica e distrugge, mentre persegue sempre solo la propria espansione. E in ogni caso non dà risposte ai problemi della società, anzi li genera di continuo.
È necessario capire che esistono due forme di efficacia, una necrofila e una biofila. Ciò indica che la cosiddetta "politica", per come viene intesa comunemente, in verità è una deformazione della politica come facoltà umana di cura del bene comune. In questa prospettiva la politica autentica si sprigiona quando il potere viene riconvertito in servizio, cura, responsabilità, autorità liberatrice, governo dei problemi e non sulle persone. Governare non significa comandare, significa mettere a punto risposte di giustizia per le questioni della convivenza sociale.
Chi agisce politicamente?
Occorre però capire chi effettivamente darà attuazione alla svolta che porta dalla politica convenzionale alla politica umanizzata. È una riflessione più onesta perché fa luce su qual è e quale sarà la parte che noi dobbiamo svolgere. Quando si cercano protagonisti affidabili, il primo impatto è scoraggiante. I leader mondiali e delle nazioni, a parte rarissime eccezioni, andrebbero processati per crimini contro l'umanità. Ogni tanto qualcuno si diverte a esprimere preferenze per qualcuno di loro con assurdi distinguo, dimenticando che si tratta comunque di ceffi che hanno sulla coscienza una moltitudine di vittime e di disastri. Basterebbe ricordarsi della sorte della Palestina, della Siria, del Kurdistan, dell'Afghanistan, solo per citare alcuni tra i Paesi crocifissi della terra, provando a verificare quali siano le potenze "buone" e quelle cattive che sono coinvolte nella storia di queste nazioni. Si vedrebbe subito che di potenze "buone" non ce ne sono.
Il dato più preoccupante è la vacuità dell'ONU, che per un verso sembra il palcoscenico globale delle ipocrisie dei governi e per l'altro un'organizzazione di beneficienza. Siamo tornati addirittura a prima del 1919, quando nacque la Società delle Nazioni. E non si vede come l'ONU possa essere riformata, visto che la sua inconsistenza dipende dai rapporti di forza tra le potenze mondiali. Non vanno meglio le unioni tra gli Stati di uno stesso continente. Le contraddizioni dell'Unione Europea in questo senso sono esemplari.
Si può provare poi a cercare presso le forze politiche, a partire da casa nostra. Al di là del giudizio su questo o quel partito – fermo restando che non sono certo tutti uguali –, si vede bene che è il circuito stesso della politica istituzionale a girare a vuoto e che lo strumento del partito in quanto tale non può più funzionare così. Chi, entrando in quel circuito, ha creduto che bastasse definirsi "movimento" e fare appello alla "rete" per essere migliore degli altri ha fatto un disastro. Se il partito per come oggi si struttura non ci porta lontano, è altrettanto pesante la lunga crisi del sindacato.
E gli enti locali, le regioni e i comuni? Ci sono rari buoni esempi, ma di fronte allo spettacolo degli individualismi localistici, per cui ad esempio ogni regione presume di trovare la sua via di uscita dalla pandemia e dallo sconvolgimento economico, cadono le braccia. L'ottusa logica della "autonomia differenziata" perpetua quella mentalità dell'esclusivismo che preclude all'umanità la possibilità di una geopolitica democratica e di pace, cioè appunto di una vera "politica per la terra".
Osare di più
E allora, chi resta? Tutte le forme di soggettività che ho citato – ONU, unioni continentali, governi, partiti, sindacati, enti locali – sono imprescindibili, ma diventeranno attori positivi della trasformazione democratica ed ecologica solo a due condizioni. La prima consiste nella maturazione della coscienza collettiva, in maniera che il senso della vita come comunità dei viventi e il conseguente senso della responsabilità si sostituiscano alla logica del potere e alla passione per le identità esclusive. La seconda è data dal protagonismo, nell'ambito del circuito delle istituzioni a tutti i livelli della convivenza interumana, di persone e gruppi che siano orientati dall'etica del bene comune.
Un mutamento spirituale, culturale, antropologico e morale così profondo richiede che sia forte e costante l'azione dal basso di singoli, comunità, reti e movimenti popolari. Dovrà trattarsi di un'azione in grado di tradurre il criterio dell'interdipendenza che lega tutta l'umanità e in generale gli esseri viventi. A ben vedere si tratta di dare seguito, nelle forme più concrete, a quel legame di fraternità e di sororità che papa Francesco ha reso comprensibile nell'enciclica Fratelli tutti. Senza l'attivazione tenace e creativa di una politica che sia così ispirata, le istituzioni sprofonderanno nella loro patologia causando la desertificazione della società e la distruzione degli equilibri del mondo naturale.
Ma è vano evocare questa svolta collettiva se ciascuno non affronta se stesso. Tutte le sapienze del mondo ricordano che questa lotta, imprescindibile e ardua, è la prima condizione per fare politica. C'è una rilevanza della qualità dei soggetti nella vita pubblica che spesso non viene considerata, mentre invece è fondamentale. Perché il tipo di azione che realizziamo dipende dal tipo di persona che siamo. Perché il male che volentieri vediamo negli altri è lo stesso che dobbiamo combattere in noi stessi. Perché il vero discernimento che dobbiamo attuare non è mai nella divisione tra buoni (ovviamente noi) e cattivi (gli altri), ma sta nell'alternativa tra bene concreto (ciò che fa fiorire la vita dell'umanità e della natura) e male concreto (ciò che mortifica, offende e distrugge). Perché senza l'umiltà e il coraggio di fare della dedizione al bene comune un proprio stile di vita personale, non ci sarà alcuna liberazione dalla trappola del potere.
Soprattutto, bisogna finalmente osare di più. Osare, diceva Hannah Arendt, quello che sembra altamente improbabile. Il che significa uscire dal cerchio della quotidianità ordinaria – fatta, nel migliore dei casi, di famiglia, lavoro, amicizie, volontariato – per agire politicamente. Si tratta di coinvolgersi nell'impegno finalizzato a guarire la vita delle istituzioni e delle comunità politiche. Va spezzato il sortilegio per cui le persone potenzialmente più disposte a prendersi cura del bene comune restano al di qua dell'impegno politico diretto e invece gli individui esistenzialmente maleducati e narcisisti vi si dedicano a tempo pieno. L'identità individuale è stata costruita per lo più sulla logica dell'esclusività e della competizione. Oggi occorrono persone corali, riconoscibili dal fatto che il loro modo di agire è consonante con il bene comune. E nel contempo servono movimenti politici corali, che siano organi di attuazione della democrazia ovunque.
Grazie a questa svolta, la fragilità della politica potrà divenire un giorno soltanto quella fisiologica di ogni realtà umana, dunque non una perversione ma un'espressione della nostra dignità di creature.