Qualifica Autore: Pastora battista

La fragilità è una ricchezza da custodire. Le donne e gli uomini che camminano con Dio non sono eroi invincibili né gente dalle certezze irremovibili.

 

Giganti dai piedi di argilla: è così che ci siamo scoperti attraversando la pandemia. Trauma collettivo, inaspettato, che ha decostruito e fatto crollare le false sicurezze su cui avevamo edificato il nostro presente. Ci siamo scoperti fragili e impreparati a fare i conti con la debolezza strutturale della creatura umana.

Sulle macerie delle nostre certezze ci ritroviamo a interrogarci sul domani. Ma i detriti delle nostre costruzioni ostacolano lo sguardo, impediscono di scorgere l'orizzonte.

La pandemia, come un terremoto, ha modificato le geografie esistenziali e gli scenari collettivi. Ci scopriamo vulnerabili, costretti ad affrontare di nuovo la questione su dove stiamo andando. In questo tempo di smarrimento ci viene in aiuto una parola antica, che è stata lampada per il piede delle generazioni passate, percorrendo strade impervie, attraversando le acque e gli abissi, per giungere fino a noi. È una parola fragile, proprio come noi. Fragile fin dal suo momento costitutivo: una narrazione che prende forma dalle macerie della storia, dall'esilio, dal fallimento di un progetto politico e religioso. A Babilonia, Israele riscopre la propria fragilità rimossa, sommersa dai deliri di gloria ai tempi della monarchia. Ora non ha più una terra da amministrare, un tempio con i suoi riti per celebrare. Ha perso tutto. Ma proprio nel fallimento, quando ogni certezza viene strappata, Israele scopre di avere qualcosa da cui ripartire: una parola fragile, fatta di storie da abitare, che diventano terra ospitale, parole per riprendere il cammino. La Bibbia nasce così nella crisi della perdita, come possibilità di ripartire facendo i conti con la propria fragilità. La ripartenza per l'Israele biblico non è data da una terra da possedere, su cui si riproducono le stesse dinamiche di potere da cui un tempo il popolo è fuggito; piuttosto, da una "patria portatile", le Scritture, in grado di accompagnare il cammino dei senza terra, degli esuli. La Bibbia è anche questo: una parola fragile che custodisce la storia dei perdenti, narrandone le vicende. Un luogo dove il potere viene decostruito per lasciar spazio a quel Dio che parla agli ultimi, a quanti non hanno più nulla da difendere.

Bibbia

La Bibbia è un libro fragile, nel quale il progetto di Dio si dischiude attraverso la parola. Cosa c'è di più fragile della parola, un soffio che, come Abele, può facilmente svaporare? Cosa c'è di più fragile di storie soggette alle amnesie del tempo e della fretta? La Bibbia è un libro fragile che, sua volta, mette in scena le fragilità dei personaggi che camminano con Dio. Non ne vengono taciute le zone d'ombra, le resistenze, i fallimenti. In ogni protagonista della storia della salvezza c'è una crepa, una vulnerabilità; e la chiamata che Dio rivolge loro deve essere continuamente rinegoziata.

Le donne e gli uomini che camminano con Dio non sono eroi invincibili, gente dalle certezze irremovibili. Sono più vicini a noi, alle nostre contraddizioni e incoerenze. Anche per questo la Bibbia risulta credibile. Non ci presenta un mondo idealizzato ma una realtà a noi prossima, pur raccontando storie che vengono da lontano. La vicinanza di questa parola viene proprio dalla sapienza di una narrazione che non nasconde il mondo dietro una patina di perfezione, ma lo racconta nei suoi paradossi; e nel nominare le contraddizioni del cuore umano, le interroga.

Questa narrazione biblica, che mette al centro la fragilità umana, osa tuttavia affermare che la fragilità può rivelarsi una forza. Non perché sia misteriosamente insita nell'esperienza della fragilità ma perché nel teatro della storia umana è all'opera un Dio che si prende cura di coloro che riconoscono di non farcela da soli. La fede stessa, più che adesione a convinzioni e principi, viene espressa con i tratti della fiducia tipica dei più piccoli, di chi impara ad affidarsi non potendo contare sulle proprie forze. Le mani aperte di chi non ha niente da trattenere sono l'immagine di questa fiducia che invoca il nutrimento essenziale per saziare quella fame di pane e giustizia necessaria per la vita buona. Il Dio biblico accende uno sguardo nuovo sui deboli per emanciparli dal paradigma del lamento che porta a dire: sono debole e non posso farci nulla.

La sapienza biblica inaugura una differente comprensione dell'esistenza. Sono fragile, lo riconosco, ma proprio qui trovo le risorse per vivere: in Dio che si prende cura di me, e nella mia persona che non si sente bastante a se stessa e si apre alla relazione e alla condivisione. Così la fragilità, riconosciuta e accettata, da debolezza si trasforma in forza. In molti modi le Scritture provano ad accendere questo sguardo. Pensiamo al racconto della nascita del popolo eletto: tutto inizia con due fragili levatrici che si ostinano a preservare la vita opponendosi all'uomo più potente della terra, disubbidendo all'ordine di uccidere i neonati ebrei. Il fragile spazio delle donne riesce a cospirare contro i potenti fino a salvare la vita del futuro liberatore, Mosè. Il re è nudo: l'uomo più potente non riesce a controllare lo spazio "senza potere"delle donne!

Il Dio della Bibbia non è alleato dei potenti. Non sta dalla parte di coloro che si credono i signori del mondo e dispongono a loro piacimento dei beni della terra, come dei propri simili. Essi hanno il volto deformato: negano la propria fragilità, si sentono autosufficienti, padroni della propria vita e predoni di quella altrui. Su di loro si alzano le dure parole di condanna dei profeti. Non è solo una condanna etica, che denuncia l'ingiustizia. La parola profetica riguarda la natura più profonda della creatura umana. I potenti dimenticano che sono stati formati dalla terra, che i loro giorni, come quelli di ogni altra creatura, sono limitati. Si illudono di essere immortali.

Limiti

Diventare umani, alla scuola della sapienza biblica, richiede un lungo processo necessariamente più difficile per chi ha potere. Tale percorso passa attraverso l'accettazione della propria vulnerabilità. Che è la sfida davanti a noi. Paradossalmente, la catastrofe della pandemia potrebbe rivelarsi l'occasione per ritrovare quel volto smarrito dell'umanità, di cui testimoniano le Scritture ebraico-cristiane. Bisogna continuamente rinegoziare la propria umanità. L'idolo del potere, del delirio d'onnipotenza è sempre in agguato. Come una bestia, è accucciato alla porta del cuore di ogni generazione. Sapremo non esservi succubi, smascherando quella falsa costruzione di sé, a cui l'idolo, non senza seduzione, vuole imporci?

O Signore, fammi conoscere la mia fine / e quale sia la misura dei miei giorni. / Fa' ch'io sappia quanto sono fragile (Sal 39,4).

Non è raro, nella Bibbia, incontrare affermazioni come questa. L'orante chiede a Dio di aiutarlo a comprendere i propri limiti. Per la sapienza biblica la creatura umana da sempre tende a negare la propria debolezza. Fin dalle prime pagine, la fatica di fare i conti con la propria fragilità viene messa a tema. Che cosa racconta il mito antico dell'albero nella Genesi, se non del desiderio di fuggire la precarietà dell'esistenza con l'illusione di poter tenere tutto sotto controllo? Acquisire il dominio sul bene e il male come arma per proteggersi dalla propria limitatezza: qui sta l'inganno. Gli occhi della prima coppia, dopo aver mangiato il frutto, si aprono e cosa vedono? La propria inaccettabile nudità, la bruciante vergogna della propria finitezza. "Sarete come Dio", aveva sibilato il serpente; e invece eccoli sperduti nel giardino, incapaci di ritrovarsi.

Adamo dove sei? Dove ti ha portato il tuo desiderio di voler essere altro rispetto a ciò che sei? Hai pensato che fosse bene desiderare di diventare immortale? La domanda divina interpella un'umanità ancora tentata di cancellare i propri limiti, fino a rimuovere la propria morte.

Tuttavia non è sufficiente desiderare di rimuovere la morte per starne al riparo; non basta affermare che le cose avverse non ci colpiranno. Negare la propria fragilità ci rende ancora più vulnerabili. Ci ha colpito un virus che ha trovato un eccellente alleato in una società che si sentiva invincibile, che ha sottovalutato il pericolo, la fragilità dei propri cittadini e delle proprie strutture sanitarie. Ancora una volta, Adamo si scopre nudo, ingannato, smarrito. E ancora una volta, Dio lo viene a cercare per aiutarlo a ritrovarsi. Dio ci chiama, attraverso i racconti biblici, e ci ricorda ciò che siamo: creature fragili e mortali.

I giorni dell'uomo sono come l'erba; egli fiorisce come il fiore dei campi; se lo raggiunge un colpo di vento, esso non esiste più e non si riconosce più il luogo dov'era (Sal 103,15-16).

Su questo principio di realtà si delinea un'antropologia che nega l'autosufficienza e ripensa il limite non tanto come un'ingiustizia da combattere quanto come un invito all'apertura agli altri e all'Altro. Siamo fragili. Nessuno basta a sé stesso e dunque nessuno può fare a meno dell'altro. Il comando iniziale, "non è bene che l'uomo sia solo", ben oltre un quadro matrimoniale, richiama alla necessità che ogni creatura umana si riconosca in bisogno di relazione. Questa è la vita buona, sognata da Dio: vita fragile e in grado di vedere in questa fragilità un tesoro. Le Scritture ci insegnano a dissotterrarlo e a estrarre da esso "cose vecchie e cose nuove" per aiutarci a vivere la sfida di questo nostro tempo.