Qualifica Autore: Università degli studi di Trieste

Tra fragilità e responsabilità: ne usciremo migliori dalla pandemia?

 

"Fragile – scrive Isidoro di Siviglia – si dice di ciò che facilmente può essere infranto". E proseguendo la spiegazione associa la frattura a una perdita di integrità della salute, che "si osserva a diversi livelli: si dice infatti debole/affaticato d'animo, ma anche debole/affaticato nel corpo".

Nel tempo della pandemia la fragilità della salute è diventata per la prima volta un vero problema comune: tutti ci siamo resi conto di essere ugualmente esposti non tanto alle malattie – questo lo sapevamo già – ma simultaneamente alla stessa malattia. Ci siamo ritrovati solidali nella stessa forma di fragilità, nello stesso tempo, ovunque sul pianeta: il virus ci ha ricordato che la possibilità di essere infranti, spezzati o come minimo indeboliti non fa parte di quelle eventualità della vita che toccano solo alcuni, alcune condizioni sociali, alcune parti del mondo, ma è qualcosa che riguarda tutti allo stesso modo.

Da questa percezione evidente di fragilità è nato lo spirito di solidarietà delle prime ore della vicenda pandemica, quello spirito che si è concretizzato nell'idea dell'essere "tutti sulla stessa barca", tutti esposti alla furia degli stessi venti e delle stesse onde e, per questo, tutti bisognosi della presenza e dell'aiuto degli altri, forse anche tutti più responsabilizzati rispetto alla sorte altrui.

C'era una lezione per l'animo da poter imparare da tutto questo, la pandemia era un'occasione da cogliere per rivisitare il nostro modo di vivere, i nostri ritmi, le nostre modalità di relazioni sociali. Lo ha evidenziato da subito papa Francesco alla fine del maggio 2020: "Peggio di questa crisi c'è solo il dramma di sprecarla" ha avvertito, intuendo il rischio di avviarsi verso un ripristino della normalità incuranti dell'insegnamento globale di un'esperienza così potente e drammatica.

Non è facile dire quanto ci siamo incamminati lungo un percorso di rimozione, quanto ciò che conta sia semplicemente uscirne per ritrovare le cose di prima e quanto, invece, la vicenda scaverà in profondità in ciascuno di noi e nei nostri modi di riorganizzarci socialmente. Certamente il rischio di affrettarsi a dimenticare rimane alto e, proprio per questo, è saggio non allentare la presa della riflessione, dell'esplorazione della crisi e dei suoi messaggi.

La pandemia ci sta offrendo senz'altro la possibilità di meditare sul rapporto tra i nostri ideali di solidarietà e la nostra capacità reale di incarnarli responsabilmente. Come proponeva Isidoro di Siviglia, la fragilità ci mostra simultaneamente l'altezza degli ideali di integrità (tutti la desideriamo come un bene fisico e spirituale) e l'insufficienza che invece il più delle volte caratterizza le nostre realizzazioni, segnate da limiti fisici – certamente – ma anche da difficoltà morali, da fatiche interiori che ci spezzano e non ci consentono di essere all'altezza delle idealità che pure riconosciamo e vorremmo perseguire per tutti. Quel che stiamo in qualche modo vedendo proprio nella "coda" della pandemia, e che fa parte della sua lezione, è che gli "infranti" (e tutti lo siamo) fanno ancora più fatica ad essere eticamente all'altezza delle situazioni difficili.

Cittadiniresponsabili

Essere cittadini responsabili oggi è più auspicato ma allo stesso tempo più difficile, non più facile rispetto al tempo del prepandemia. È vero infatti che nell'emergenza molti hanno profuso un impegno che non abbiamo esitato a riconoscere come "eroico". Ma è anche vero che la solidarietà espressa dai balconi del lock down era un ideale alto, una visione diversa del senso di prossimità tra concittadini e del reciproco venirsi in aiuto, che tuttavia attendeva di essere messa alla prova nei tempi in cui si sarebbe nuovamente potuto agire. Ritornando alla vita sociale, quel che in effetti abbiamo ritrovato è stato probabilmente più deludente: la stessa, se non maggiore, violenza nelle relazioni e nelle parole, gli stessi tentativi di approfittare delle situazioni per cavarsela a buon mercato (per molti il tele-lavoro è stata l'occasione per diminuire, non per modificare il proprio impegno lavorativo), la stessa incapacità di assumerci le piccole responsabilità di ogni giorno e di riparare al male che, anche inavvertitamente, facciamo agli altri.

Pensavamo che ritrovarci accomunati nel pericolo e nella fragilità potesse renderci più attenti e solidali  invece stiamo probabilmente notando che accade proprio l'inverso: l'essere stati infranti, sia pure in modi e misure diversi, fisicamente o psicologicamente, nel corpo o negli affetti, ci fa essere più esigenti e severi con gli altri, mentre ci induce ad alleggerire il nostro impegno, a ritenerci in credito con la società, a respingere maggiori assunzioni di responsabilità. L'asimmetria tra i diritti reclamati e i doveri assunti e onorati cresce, anziché ridursi nel tempo di uscita dall'emergenza.

Se allora immaginavamo che il semplice fatto di aver vissuto la pandemia, di aver attraversato un dramma comune, ci avrebbe resi migliori, forse ci stiamo ricredendo. Ed è importante farlo, perché probabilmente proprio qui si cela la lezione più importante da metabolizzare: di per sé quando il male, in qualsiasi forma, tocca la nostra vita, l'effetto che ne deriva non è un incremento, ma una diminuzione della nostra stessa capacità di realizzare il bene. Anche per i mali collettivi vale quel che gli autori più attenti hanno colto e richiamato costantemente a proposito della sofferenza e del male patito individualmente: ogni pena – scriveva Tommaso d'Aquino nel suo trattato Il male – è anzitutto "una privazione della forma o dell'abito o di qualsiasi altra cosa che possa essere necessaria per agire bene, sia che appartenga all'anima o al corpo o alle cose esteriori". Fare esperienza del male, della privazione e di qualsiasi forma di frattura che ci spezza fisicamente e soprattutto interiormente non ci rende automaticamente migliori, semmai vale il contrario: ci priva di risorse che occorrono per agire bene. Non a caso, proprio nello sviluppare una riflessione morale, anche Tommaso si rifaceva alle dinamiche che osserviamo nella nostra stessa corporeità: quando siamo feriti o infortunati creiamo delle compensazioni che ci consentano di contenere il dolore e le funzionalità essenziali, ma queste posture scomposte, se non intervengono cure sapienti e talvolta contro-intuitive, il più delle volte generano a loro volta nuove problematiche.

La pandemia ci può allora ricordare un aspetto singolare della nostra umanità: la fragilità, che è possibilità di essere in qualunque momento infranti (e già questa è una consapevolezza non del tutto scontata), invoca cura preventiva e percorsi tempestivi e spesso controintuitivi di riabilitazione, senza i quali tendiamo a frantumarci ulteriormente e in fin dei conti a disumanizzarci, a diventare sempre meno capaci di incarnare e di impegnarci per quegli stessi ideali di solidarietà e di buona convivenza nel vicendevole supporto che pure astrattamente riconosciamo.

Gli infranti

Ci sono senz'altro molti aspetti su cui può essere importante sostare più diffusamente per immaginare un futuro in cui la lezione della pandemia non vada sprecata, ma vorrei evidenziarne due che derivano in particolare dal riconoscimento della fragilità interiore e morale come condizione di esposizione al male che ci accomuna tutti.

Il primo aspetto riguarda il nostro sguardo non tanto verso i "più fragili" – spesso viene impiegata questa espressione – ma verso i "più infranti", che certamente sono anche ancora più fragili, proprio per la dinamica appena richiamata. Spesso guardiamo agli infranti con un misto di biasimo e di maggiore severità in quel che chiediamo loro. Come ha recentemente fatto osservare Michael Sandel, immersi nella cultura meritocratica, finiamo facilmente per pensare che chi non ce l'ha fatta o chi ha fallito sia pienamente responsabile della propria rovina esattamente come tendiamo a pensare che chi è riuscito, chi ha avuto successo, ha raggiunto determinati risultati perché si è impegnato e ha lavorato sodo (cfr. La tirannia del merito, Feltrinelli 2021). Ci dimentichiamo della prima lezione della pandemia: nella vita accade (anche) che le cose vadano male indipendentemente dal nostro impegno così come, in altri frangenti, che vadano bene a prescindere dai nostri meriti. Lo sguardo meritocratico ci spinge ad essere così molto esigenti con chi chiede aiuto provenendo da situazioni di difficoltà e ci indigniamo facilmente se, al soccorso ricevuto, non pare corrispondere un pronto impegno, ma invece il semplice tentativo di capitalizzare e di ottenere dell'altro prima di mettersi in gioco. Dovremmo, piuttosto, considerare che le vite infrante non sono necessariamente vite colpevoli, ma sono sicuramente vite penalizzate, e tanto basta a far sì che ogni percorso di ripresa non possa che essere lento, graduale e precario. Spesso persino ingrato. Non ci sono scorciatoie lì dove si tratta di risanare dall'esperienza ripetuta del male, ma solo sviluppi lunghi e investimenti di accompagnamento di respiro. Occorre pazienza, non biasimo, non scattante indignazione. Il "costo" del riscatto sociale è tanto più alto quanti più giri conta la spirale della frantumazione esteriore e interiore: è una consapevolezza culturale e politica da non trascurare.

Giustizia riparativa

Il secondo luogo di riflessione che vorrei sottolineare è collegato al primo: se ci rendiamo conto di quanto sia oneroso accompagnare chi è stato infranto e a più riprese ha vissuto un processo di contrazione della propria capacità morale, della capacità di mettersi attivamente in gioco per la responsabilità e la giustizia, allora dovremmo intensificare socialmente la cura costante della comune fragilità. Questo non significa illudersi di mettersi e mettere al riparo dalle esperienze di male, quanto piuttosto impegnarsi insieme per evitare che si inneschi la spirale del progressivo indebolimento delle persone che ne fanno esperienza o che ne sono protagoniste.

Nella cultura civile contemporanea la proposta che forse meglio incarna questa prospettiva è quella della Restorative Justice o Giustizia Riparativa, intesa come un vero e proprio paradigma delle relazioni sociali e di concittadinanza. Questa visione, che si sta affermando anche a livello dell'Unione Europea e che trova tra i suoi sostenitori anche l'attuale ministra italiana della Giustizia, Marta Cartabia, prende seriamente il tema della fragilità proprio nel riformulare in modo meno idealizzato e più costruttivo la questione della responsabilità lì dove qualcosa nelle vite viene infranto.

Chi è vittima del male ha bisogno di ritrovare al più presto la propria stessa capacità di realizzare qualcosa di positivo non solo per sé, ma anche per altri e va sostenuto attivamente in questa direzione di recupero del proprio protagonismo rispetto al bene comune; chi del male è autore può d'altra parte trarre molto più giovamento da percorsi che consentano di prendere coscienza dell'accaduto incontrando le vittime, e di impegnarsi attivamente per riparare, secondo le possibilità, ciò che è stato infranto. Una comunità che vede e accompagna questi processi è anche una comunità in cui cresce la sicurezza. Prendersi cura della fragilità significa "tagliare i rifornimenti" alla logica del male, sollecitando la generosità e la generatività da una parte e disinnescando dall'altra le dinamiche punitive e penalizzanti, intese come risposta sociale adeguata nei confronti di chi ha compiuto il male. L'idea, in particolare, di poter risanare situazioni di male facendo patire specularmente del male a coloro che le hanno causate va denunciata come un inganno: la logica sanzionatoria – che è sempre una delle varianti della prospettiva meritocratica: premi a chi ce la fa, penalizzazioni a chi non riesce – andrebbe sostituita da una logica riparativa, l'unica probabilmente in grado di rilanciare continuamente la solidarietà tra fragili che riconoscono di esserlo.

L'incentivo di un approccio riparativo nei luoghi della formazione e fin dalle ordinarie relazioni tra concittadini, ma anche tra cittadini e istituzioni, fa parte di quelle manovre contro-intuitive che possono essere una risposta seria e di effettiva guarigione, in una società segnata da un male che non ci ha raggiunti soltanto sul piano fisico, ma anche e forse più invisibilmente, proprio su quello interiore e morale.

Uscirne "migliori" dall'esperienza pandemica non è qualcosa che va da sé; occorre mettere in campo un impegno culturale e formativo che consenta di sviluppare anticorpi personali e sociali contro la logica corrosiva del male. È una possibilità che rimane aperta, l'attraversamento non è concluso e in fondo dipende da ciascuno che la "pena" che ci ha segnato collettivamente non vada sprecata.

 

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Occhetta, La giustizia capovolta, Edizioni San Paolo, Milano 2016

Grandi, Fare Giustizia. Un'indagine sul male, la pena e la riparazione, PUP, Padova 2020

Grandi, Scusi per la pianta. Nove lezioni di etica pubblica, UTET, Milano 2021

Consiglio d'Europa, Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale CM/Rec (2018) (https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectId=090000168091ebf7)

M.J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e perdenti, Feltrinelli 2021